I nastri di Legasov - NASTRO 4, LATO A

I nastri di Legasov – NASTRO 4, LATO A

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Furono costruite molte dighe per contenere i detriti contaminati, il fogliame e tutto ciò che aveva contaminato la superficie dell’acqua e impedire così la diffusione della radioattività lungo il Pripyat e il Dnepr. Tutto questo lavoro venne svolto dal Ministero delle Acque sovietico e dal Ministero delle Acque ucraino, il tutto realizzato in un tempo straordinariamente breve.

Le dighe vennero progettate e costruite immediatamente, ma anche questo venne accompagnato da un lavoro di ricerca. Inoltre, della criolite venne aggiunta nei corpi delle dighe, spedita dall’Armenia e dalla Georgia, dotata di un’elevata capacità di assorbimento per catturare tutte le microparticelle e tutti i componenti degli elementi radioattivi che si trovassero nell’acqua e impedirne l’ulteriore diffusione. Ad oggi possiamo dire che questo obiettivo venne pienamente raggiunto.

Nello stesso periodo in cui la Commissione Governativa era già definitiva (quella guidata da Boris Evdokimovich Shcherbina, senza che ci fossero ulteriori sostituzioni), una decisione del governo creò un Consiglio di Coordinamento per le questioni di Chernobyl presso l’Accademia delle Scienze guidato da Anatoly Petrovich Alexandrov, nella quale venni assegnato quale suo secondo vice. La composizione includeva i capi delle principali istituzioni legate al lavoro intorno a Chernobyl e anche i maggiori esperti, come l’accademico Sokolov, l’accademico Mikhalevich e l’accademico Trefilov, che erano associati a particolari compiti di natura ecologica o tecnica legati alla liquidazione delle conseguenze dell’incidente.

Occorre ricordare che quando il lavoro venne organizzato in questo modo, quando lo sforzo venne distribuito tra varie istituzioni e autorità di vigilanza, allora, ovviamente, emerse molto più ordine e chiarezza rispetto ai primi giorni in cui tutti i problemi dell’emergenza vennero sì risolti ma non tutto il lavoro era andato liscio.

Ad esempio, lo stato di contaminazione sui tetti degli edifici del terzo e del quarto blocco venne misurato più volte. Ogni volta vennero riportati dati e risultati considerevolmente diversi, da sorprendentemente alti a relativamente moderati. Ecco perché dovemmo recarci personalmente lì sia io che gli specialisti militari, i quali a quel tempo avevano schierato con grande successo un centro di ricerca nel villaggio di Ovruch, il quale consentiva a un grande contingente di specialisti militari di eseguire consapevolmente compiti di decontaminazione, di misurazione e tutti gli altri che gli erano stati assegnati. Questo centro stava svolgendo un lavoro molto ampio sulla misurazione della radioattività e sul rilascio della stessa, sul trasferimento del vento, sulle condizioni dinamiche di varie aree, oltre a fornire un grande contributo alla ricerca scientifica e ai piani pratici di tutto questo lavoro svolto a Chernobyl. Non fu affatto facile affrontare questi problemi.

Sempre a mo’ d’esempio, non lontano dalla centrale c’era una foresta di pini fortemente contaminata (fino a diversi roentgen, nei primissimi giorni) che venne chiamata “la foresta rossa”. Vi parlerò del destino di quella foresta. Vari furono i consigli in merito. Il primo, quello di non toccarla e lasciarla così com’era, con le sue radiazioni, contando sul fatto che la natura, facendo il proprio corso, lasciasse maturare gli aghi che, una volta secchi, sarebbero caduti e sarebbe stato possibile raccogliere in un secondo momento, per poi seppellirli. I tronchi e i rami sarebbero rimasti relativamente puliti. Il secondo, quello di bruciare l’intera foresta, ma diversi esperimenti dimostrarono come i prodotti della combustione avrebbero convogliato nei fumi grandi quantità di radionuclidi e radioattività. Alla fine venne presa la decisione di abbattere parte della foresta, trasportarla, seppellirla e semplicemente convertire l’area rimanente in un cimitero, così da limitarne l’accesso – cosa che effettivamente venne fatta. L’impatto radioattivo della “foresta rossa” sulla città e sui suoi dintorni diminuì drasticamente dopo che le suddette operazioni vennero eseguite.

Nacque poi una grande discussione sul cosiddetto effetto Compton. Quando iniziarono i preparativi per il riavvio del terzo blocco (inizialmente l’idea era di avviarlo qualche tempo dopo il primo e il secondo), le condizioni di radiazione all’interno degli edifici di tale blocco, nelle stanze della sala macchine, non consentivano di lavorare in sicurezza. La prima ipotesi era che si trattasse di contaminazione interna all’edificio. Dopo la decontaminazione, il livello di attività in questa stanza si abbassò ma rimase relativamente alto, raggiungendo decine e talvolta centinaia di milliroentgen all’ora in alcuni punti e fino a un roentgen all’ora in altri punti della sala macchine. Venne quindi fatta un’ipotesi per la quale la fonte di tale radioattività fosse il tetto del terzo blocco su cui persisteva molto carburante sparpagliato. Questo impediva la creazione di condizioni di radiazione accettabili. Perché, sebbene le oltre 600 stanze del terzo blocco fossero state pulite e lavate, le condizioni di radiazione nella sala macchine erano rimaste comunque piuttosto elevate.

Abbiamo così iniziato a effettuare varie misurazioni utilizzando un collimatore appositamente progettato, il quale mostrò che l’attività sul tetto non fosse l’unica fonte a influenzare le condizioni di radiazione nel terzo blocco. In effetti era il vicino quarto blocco che, a causa dell’effetto Compton, vedeva la reirradiazione e il riflesso di una parte dei raggi gamma fuoriuscenti il tetto del quarto blocco, quale principale fonte dell’ambiente di radiazioni elevate nella sala macchine del terzo. Si tennero tante discussioni su questo argomento, tanti sondaggi, tante misurazioni, e alla fine comunque si scoprì che la principale fonte di contaminazione fosse effettivamente la contaminazione sul tetto del terzo blocco. Sebbene, naturalmente, l’effetto Compton avesse un suo ruolo; in alcuni punti circa 10 milliroentgen all’ora (in alcuni punti meno) erano irradiati dal quarto blocco. Ecco perché venne presa la decisione di sostituire completamente il tetto del terzo blocco, inserirne uno nuovo con adeguati dispositivi di sicurezza che consentissero di proseguire i lavori necessari e riavviare in tempo il terzo blocco della centrale nucleare di Chernobyl.

All’incirca nel momento in cui il destino del terzo blocco veniva deciso – a causa delle sue condizioni la sua prevista riaccensione estiva era stata ritardata all’autunno – l’opportunità di allestire e avviare i lavori sul quinto e sesto blocco veniva discussa molto intensamente. Questi plessi erano in stati di preparazione molto diversi. Il quinto blocco era quasi pronto e poteva praticamente essere lanciato entro pochi mesi dalla decontaminazione, mentre il sesto blocco era nella fase iniziale.

Vi furono discussioni considerevoli. L’opinione pubblica protestava contro la prosecuzione della costruzione del quinto e sesto blocco e contro la loro entrata in servizio, perché riteneva che 6 gigawatt fossero troppa potenza su un unico sito, soprattutto in condizioni di radiazione anomale. La domanda energetica dell’Ucraina comunque dettava la necessità di introdurre sempre più capacità di potenza. La questione venne discussa dalla Commissione Governativa portandola sino a livelli più alti, e alla fine venne deciso di rinviare la questione e che nell’anno successivo, 1987, e forse nel 1988, non sarebbero dunque stati eseguiti lavori di costruzione sul quinto e sesto blocco. Tutto lo sforzo dei decontaminatori doveva essere concentrato sulla piena normalizzazione delle condizioni nel terzo blocco e anche sulla pulizia della base di costruzione. Sul territorio esisteva un sito dove erano immagazzinati macchinari e materiali necessari per la costruzione del quinto e sesto blocco. Tale sito era piuttosto contaminato. Quindi, per risparmiare e recuperare la notevole quantità di costose attrezzature lì immagazzinate, venne costruita un’officina speciale, di decontaminazione, presso la Centrale Nucleare di Chernobyl. Questo laboratorio iniziò subito a decontaminare regolarmente le attrezzature più preziose e a inviarle in varie parti dell’Unione Sovietica per l’utilizzo pratico.

Nel momento in cui vennero avviati i lavori attivi per la decontaminazione e la preparazione al riavvio del terzo blocco, allo stesso tempo si svolgevano i lavori non sulla pianificazione ma sulla costruzione vera e propria della città di Slavutych. Il ritmo di costruzione aumentava continuamente e questo aveva molto senso perché, dopo circa 4-5 mesi di funzionamento del primo e secondo blocco a turni, era diventato evidente come psicologicamente e fisicamente fosse lavoro molto duro. Anche con lunghe pause di riposo, gli operatori dovevano comunque stare al quadro di comando per 10-12 ore. C’era un problema di separazione prolungata dalle famiglie, lavorando in condizioni insolite. Tutto ciò creava problemi tali da rendere evidente che il metodo a turni, in questo caso, non fosse certo ottimale. Era una misura forzata che aveva giocato un ruolo importante nel momento in cui era stata utilizzata, ma in quanto a renderlo il principale metodo di lavoro basato su questo, era assolutamente ovvio che questo fosse impossibile. Pertanto la velocità di costruzione della città di Slavutych, principale città degli ingegneri energetici, venne notevolmente aumentata. Ad esempio, Boris Evdokimovich Shcherbina, se ricordo bene, faceva viaggi quasi ogni mese per monitorare come procedesse la costruzione di Slavutych, come si stessero muovendo le attrezzature, come venissero allestite le strutture. In altre parole, questo problema era costantemente sotto il suo controllo, così come tutti gli altri problemi relativi all’incidente di Chernobyl.

Circa a metà del 1987, nell’estate del 1987 per la precisione, apparvero finalmente dei robot realizzati dalle nostre stesse mani sovietiche. Ad esempio, i robot realizzati presso l’Istituto di Energia Nucleare Kurchatov. Erano i noti robot da ricognizione che non riuscimmo a ottenere in tempo da nessuna parte, da nessun paese del mondo. Li realizzammo noi stessi questi robot da ricognizione che, nelle condizioni logistiche più complicate, nei rottami, in alti campi di radiazione, potessero avanzare praticamente a qualsiasi distanza in modo guidato e fare le ricognizioni radianti e termiche della situazione, a fornire le informazioni necessarie. Questi robot hanno un ruolo enorme anche tutt’oggi perché con il loro aiuto sono state scoperte molte cose interessanti riguardo alle domande relative alla natura e alle conseguenze dell’incidente. Ma non sono sicuro che raccoglieranno ulteriori informazioni.

Un’altra idea di cui ho più volte parlato e chiesto di essere implementata – senza successo – è quella di creare robot volanti, cioè modelli di aerei radiocomandati che portassero a bordo sensori. Sensori per campi di radiazioni, sensori per misurare la composizione del gas in vari punti della centrale nucleare di Chernobyl. Bene, per non usare… [la registrazione è danneggiata].

…Quanto dirò ora è per i compagni Novikov Vladimir Mikhailovich, Dyomin Vladimir Fyodorovich e Sukhoruchkin Vladimir Konstantinovich. Nel merito, si tratta dell’articolo richiesto dalla rivista Scientific American, il quale dovrebbe avere un carattere filosofico riassuntivo. Il titolo provvisorio di questo articolo è “Le ragioni che hanno portato all’incidente di Chernobyl e le sue conseguenze“. L’articolo dovrebbe essere basato sui miei appunti, su quelli del compagno Dyomin, del compagno Novikov e del compagno Sukhoruchkin ma, tuttavia, questi appunti devono essere raccolti ed elaborati in modo tale che da essi emerga una filosofia complessiva.

La prima parte di questo articolo, credo, dovrebbe riguardare la storia dello sviluppo dell’energia nucleare sovietica, per ricordare che la prima centrale nucleare al mondo… [la registrazione è danneggiata] …e il principio delle disposizioni di sicurezza in questa piccola centrale da 5 megawatt. A quel tempo, l’intero sistema di protezione venne copiato, probabilmente da… [la registrazione è danneggiata] …che esisteva nei reattori industriali e utilizzava l’esperienza militare accumulata. Quindi la seconda centrale, la centrale nucleare di Beloyarsk, dove la grafite veniva usata come inibitore, ma che era già un reattore a neutroni veloci, e tale ricerca descrive il suo principio di funzionamento.

Successivamente, dovremmo parlare della stazione di Novovoronezh, il cui primo blocco è già stato costruito come stazione nucleare progettata per funzionare in modo continuo con uno staff civile, e descrivere i sistemi di protezione che venivano utilizzati in quella stazione.

Occorrerebbe poi ricordare che sia durante che dopo la costruzione della centrale nucleare di Novovoronezh, la politica del nostro governo non attribuì particolare importanza allo sviluppo dell’energia nucleare, perché si credeva che utilizzando fonti organiche di combustibile – carbone del Donbass, gas di Saratov e poi le riserve di petrolio – saremmo stati in grado di soddisfare tutte le nostre esigenze industriali e che l’energia nucleare dimostrata nelle stazioni di Obninsk, Beloyarsk e Novovoronezh fosse più dedicata della ricerca scientifica in preparazione del futuro.

Sarebbe necessario spiegare come in realtà si trattasse di un errore di calcolo in termini di risorse – la capacità del bacino di Donetsk di fornire carbone era sopravvalutata – e anche di un errore di calcolo in termini di trasporti ed ecologia, perché all’epoca non comprendevamo quanto l’estensione dei trasporti in base all’ampiezza del territorio introducesse inquinamento, compresi elementi radioattivi, laddove ci fossimo basati solo su fonti organiche e fossili.

Tutto questo andrebbe descritto perché è molto importante. È importante dire che il ritardo di circa dieci anni nello sviluppo dell’energia nucleare in Unione Sovietica sia stato la prima causa dell’incidente di Chernobyl, la prima rondine, il primo campanello d’allarme. Perché? Ebbene perché era già chiaro negli anni ’60 che sarebbe stato costoso e praticamente impossibile sviluppare l’industria nella zona europea fornendole energia elettrica da sole fonti organiche e fossili, e che fosse quindi necessario mettere in funzione fonti di energia nucleare per farlo rapidamente. Apparve così una sorta di naturale desiderio di minimizzare in qualche modo la spesa per il rapido sviluppo dell’energia nucleare. E qui, in questo momento, è stato commesso il principale, fondamentale errore filosofico nel nostro approccio alla sicurezza.

Qualsiasi approccio alla sicurezza nucleare di un dispositivo tecnologicamente complesso e potenzialmente pericoloso deve avere tre elementi. Innanzitutto, rendi il dispositivo stesso, diciamo, un reattore nucleare, al massimo della sua sicurezza. In secondo luogo, rendi il funzionamento di questo dispositivo estremamente sicuro e affidabile. Ma la parola “massimo”, in entrambi i casi, non può mai significare un’affidabilità del 100%. Le apparecchiature non possono mai funzionare al 100% delle condizioni specificate dal progetto ed escludere completamente tutti gli errori umani, accidentali o forse anche intenzionali. Questo è impossibile.

Poiché questo reattore a massima sicurezza e dal funzionamento in massima sicurezza è puramente teorico, allora la filosofia della sicurezza richiede l’implementazione obbligatoria in un terzo elemento, l’elemento che presume la possibilità di un incidente e che la radioattività e altro materiale pericoloso possano fuoriuscire dal dispositivo. Per questi casi, un elemento obbligatorio è racchiudere il dispositivo pericoloso in un involucro tale da localizzare l’incidente che, nonostante la bassa probabilità, potrebbe comunque verificarsi. Racchiuderebbe l’oggetto in quello che viene chiamato un contenimento (forse una soluzione sotterranea o altre possibili opzioni ingegneristiche), ma la cosa più importante per l’affidabilità è avere un sistema che non si basi sul sito geografico. In caso di problemi improbabili ma possibili, questi problemi non si diffonderebbero all’ambiente circostante, come nel caso degli incidenti nelle miniere. Questo è il terzo elemento. Nell’energia nucleare sovietica, proprio a causa del ritmo che doveva essere piuttosto alto, poiché si erano persi dieci anni, questo terzo elemento veniva, dal mio punto di vista, criminalmente ignorato.

In tutta onestà, devo dire che molti esperti dell’Unione Sovietica si opposero, e molto attivamente, alla costruzione di centrali nucleari senza contenimento. In particolare, il membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze dell’URSS Viktor Alekseyevich Sidorenko nella sua tesi di dottorato, e più tardi nel suo libro basato su questa tesi di dottorato, stava dimostrando con tutti i mezzi a sua disposizione all’epoca che fossero necessari dei contenimenti. Tuttavia, questo punto di vista degli esperti non venne considerato.

C’è un’altra circostanza precisa. L’energia nucleare in Unione Sovietica non è emersa dal settore energetico ma, per così dire, dall’industria nucleare, dove veniva utilizzato personale altamente qualificato e disciplinato, dove era in atto un’approvazione militare speciale per ogni elemento di equipaggiamento; di conseguenza l’affidabilità in questo ambito dell’industria nucleare, sia dal punto di vista del personale che delle apparecchiature, era molto alta. I 15-20 anni di esperienza accumulata da questo settore hanno dimostrato che il funzionamento competente, affidabile e preciso degli impianti nucleari, i mezzi tecnici per garantire la sicurezza e l’adeguata formazione del personale siano sufficienti per evitare il verificarsi di grandi incidenti con rilascio di radiazioni ed esplosioni, perlomeno non delle centrali stesse.

Non era stato preso in considerazione il fatto che dopo che gli impianti nucleari fossero passati da un ambiente industriale limitato a un ampio utilizzo nell’energia nucleare civile, le condizioni sarebbero cambiate drasticamente. Dal punto di vista dei più elementari calcoli di probabilità, il costante aumento del numero stesso delle centrali nucleari non faceva che aumentare il rischio di errori nelle azioni del personale o di guasti nel funzionamento dei dispositivi tecnici. Quindi, dal mio punto di vista, la scelta di non dotare ogni centrale di un contenimento di sicurezza fu un errore filosofico, un errore fondamentale.

Da quando si è cominciato a correggere questo errore? Da quando l’Unione Sovietica è entrata nel mercato estero e ha iniziato a costruire la prima centrale nucleare per un paese straniero, in Finlandia. Come cliente, la parte finlandese, dopo aver studiato l’esperienza internazionale dove a quel punto si era sviluppato uno standard internazionale, richiedeva proprio i tre elementi di sicurezza: un reattore affidabile, un funzionamento altrettanto affidabile e un contenimento obbligatorio. Questo terzo elemento venne espressamente richiesto dai finlandesi. Ecco perché la centrale finlandese venne costruita con tale elemento. Dopo questo, il ghiaccio si è sciolto. La leadership energetica ha iniziato a tenere questo elemento in grande considerazione, anche se senza rendersi pienamente conto della gravità del problema. Le nostre organizzazioni di progettazione iniziarono quindi a lavorare sui dispositivi di contenimento.

La seconda conseguenza del ritardo nello sviluppo dell’energia nucleare era il fatto che c’erano capacità di produzione insufficienti per, diciamo, i contenimenti per i reattori VVER, ancora oggi il tipo di reattore più comune al mondo. La sua costruzione e il suo funzionamento possono tener conto non solo della nostra esperienza, ma anche dell’esperienza dell’intera comunità mondiale. I costruttori sovietici delle centrali non avevano una capacità sufficiente per produrre nelle quantità necessarie i contenimenti e altre apparecchiature per i reattori VVER. A questo punto allora una sezione della comunità energetica presentò una proposta. Per non limitare i piani di introduzione di nuove capacità nucleari e considerando il sovraccarico del settore delle costruzioni, l’idea era quella di creare un ramo parallelo nell’energia nucleare che consentisse di costruire reattori sufficientemente potenti senza utilizzare il concetto di guscio, senza gravare il settore dell’edilizia industriale con la complessa tecnologia per la produzione di involucri di reattori altamente affidabili richiesti per i reattori VVER. Così nacque l’idea del reattore RBMK di tipo a canale con blocchi di grafite, eccetera.

Se fosse stata sviluppata la filosofia che richiedeva obbligatoriamente un contenimento su qualsiasi tipo di impianto nucleare, allora naturalmente RBMK, con la sua geometria, con la sua costruzione, come dispositivo, semplicemente non sarebbe nato. Sarebbe stato, per così dire, al di fuori degli standard e dei regolamenti internazionali. Non importa quanto affidabile o buono fosse nelle sue altre caratteristiche: non sarebbe apparso. Ma poiché questa filosofia del contenimento obbligatorio non fu adottata dalla leadership dell’energia nucleare dell’epoca, il reattore RBMK apparve eccome.

Ecco perché ritengo che l’inizio del disastro di Chernobyl debba essere considerato a partire dal rallentamento dello sviluppo dell’energia nucleare alla fine degli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. Dopo aver creato il primo impianto nucleare abbiamo prima rallentato lo sviluppo della tecnologia della loro creazione, in considerazione di tutte le questioni di sicurezza relative al funzionamento di questi dispositivi, ma dopo abbiamo iniziato a correre. Questa fretta ha portato alla necessità di costruire più impianti allo stesso costo. C’era bisogno di risparmiare. Abbiamo iniziato a risparmiare sui contenimenti, e una volta che il contenimento era diventato facoltativo, è sorta la tentazione di costruire un’altra linea di reattori che aiutasse il paese senza sovraccaricare l’industria edilizia. È così che è apparsa l’ideologia del reattore RBMK.

Così, questo approccio di non contenimento, dal mio punto di vista, è il principio e l’errore fondamentale dell’energia nucleare sovietica; ma che dico l’energia nucleare sovietica, in realtà gli esperti di energia nucleare – lo ripeto ancora una volta, non tutti, non all’unanimità, ma su un fronte abbastanza ampio – si espressero contro questo tipo di reattore, sia per ragioni di sicurezza che di mancanza di contenimento – che anche è a sua volta un problema di sicurezza. Già il primo lancio di questo reattore nella prima unità RBMK della centrale nucleare di Leningrado ha dimostrato che una zona attiva così ampia, implementata nel modo in cui lo è stata, è molto complessa per l’operatore. Durante le prime accensioni della prima unità presso la centrale nucleare di Leningrado si era verificato un problema di instabilità dei flussi di neutroni e delle difficoltà nella loro gestione. Questo doveva essere risolto in corsa. Fu necessario adottare una serie di altre misure tecniche per facilitare il controllo del reattore. Eppure, anche dopo queste misure – e tutti gli esperti dell’Unione Sovietica lo sapevano – dal punto di vista del controllo, questo reattore richiedeva molta attenzione da parte dell’operatore, rimanendo sempre piuttosto complesso.

Inoltre, all’emergere di questo dispositivo RBMK, dal punto di vista degli standard di sicurezza internazionali e generalmente normali, esso era illegale già dall’inizio. In questo dispositivo sono stati commessi almeno tre importanti errori di progettazione. Il primo errore di progettazione è stato quello di non prevedere almeno due sistemi di protezione di emergenza, come richiesto dagli standard internazionali e come suggerisce il buon senso. Inoltre, uno dei sistemi di protezione di emergenza dovrebbe essere basato su principi fisici diversi dall’altro e, cosa più importante dal mio punto di vista, uno dei due sistemi deve funzionare indipendentemente dall’operatore. Ciò significa, diciamo, che un sistema di protezione di emergenza deve essere controllato dall’operatore in modo automatico, semiautomatico o manuale a seconda della modalità; il secondo sistema di protezione di emergenza deve invece funzionare indipendentemente, qualunque siano le circostanze dell’operatore, basandosi solo su un aumento dei parametri, ad esempio flusso di neutroni, potenza, temperatura eccetera, esso deve spegnere automaticamente il reattore. Il reattore RBMK non era dotato di un tale secondo sistema di protezione che fosse indipendente dall’operatore e non facesse parte del sistema di controllo. Questo fu un grosso errore che, se non fosse stato fatto, l’incidente di Chernobyl non sarebbe accaduto.

Infine, il terzo errore di progettazione, difficile da spiegare, è stato che tutti i numerosi sistemi di protezione di emergenza fossero accessibili al personale della stazione. Ad esempio, non esistevano doppi cifrari speciali per disattivare i sistemi di protezione,  magari utilizzando un comando doppio o addirittura triplo da un operatore che girasse una chiave, seguito poi da un simultaneo giro di chiave da parte, ad esempio, del capoturno e forse anche di qualcuno specificamente responsabile della sicurezza, magari il capo della centrale, dell’ingegnere capo o del suo vice. Tali mezzi tecnici e dispositivi che sono generalmente utilizzati in molti sistemi militari, nei complessi missilistici, nelle armi nucleari, non erano stati utilizzati. Questo, ovviamente, risulta sorprendente e strano.

Come ho già detto, il reattore RBMK non è di facile utilizzo perché instabilità, che in linea di principio sono possibili, si verificano frequentemente nelle sue modalità di funzionamento e questo rende più importante avere dei simulatori accanto ad ogni dispositivo RBMK. Questi simulatori consentirebbero la formazione continua del personale per reagire adeguatamente quando si verifichi una deviazione dal normale funzionamento. Tuttavia, per questo particolare dispositivo di fatto non esistevano simulatori.

Va aggiunto, tuttavia, che una serie di sfide con questo reattore vennero risolte molto bene. Ad esempio, erano noti alcuni vantaggi di questo reattore quali, in primo luogo, appunto, la possibilità di realizzare il dispositivo senza utilizzare le capacità dell’industria meccanica, data l’assenza di un contenimento per il reattore; la possibilità di rifornire il reattore durante il funzionamento consentiva di avere un alto coefficiente di utilizzo della potenza in questo reattore, il principio del canale stesso; una serie di altre scelte tecniche, come per esempio le pompe altamente affidabili. Questi erano piccoli vantaggi, ovviamente, ma comunque sia erano importanti. Comunque, la fondamentale mancanza di un contenimento, come ha dimostrato la pratica, non poteva e non può essere compensata dai compartimenti ermeticamente chiusi. Questo problema si è rivelato fondamentale.

Naturalmente, andrebbe anche raccontato come il coefficiente di reattività positivo in questo reattore si sia rivelato cruciale e inaspettato per i fisici. Anche questo era legato al primo motivo, la fretta, con la necessità di un ritmo elevato di sviluppo dei dispositivi nucleari. In linea di principio, una corretta configurazione avrebbe potuto, ovviamente, contenere il coefficiente di vapore entro quantità ammissibili. Come la pratica ha poi dimostrato, la somma delle misure che sono state prese per questo reattore ha fatto sì che il coefficiente di vapore non fosse più solo un beta. Questo valore di per sé abbastanza controllabile consente, con opportuni dispositivi di protezione rapida, di gestire eventuali problemi ma, dato che questo non era mai stato fatto prima, il dispositivo ha funzionato con valori di coefficienti di reattività positivi molto più alti di un beta sin dall’inizio.

In secondo luogo, ciò che è stato calcolato si è rivelato in pratica significativamente più elevato di quanto poi appurato perché la conoscenza fisica di questo reattore non era ancora sufficiente. Tutto questo è l’insieme di ragioni che hanno portato al problema di cui volevo parlare. Non si tratta degli operatori.

Certo, gli errori commessi dagli operatori sono ben noti e non c’è bisogno di elencarli ancora una volta. Questi stessi errori sono mostruosi. Le azioni della direzione della centrale sono molto difficili da spiegare. Punire i colpevoli diretti di questo disastro è corretto perché le azioni non hanno soddisfatto i requisiti normativi e hanno mostrato incoerenza con le esigenze lavorative delle persone che agivano in quella situazione. Ma ancora una volta, questa è colpa dei funzionari. Il motivo principale dell’incidente non sono nemmeno gli errori nella progettazione del reattore – che ovviamente hanno avuto il loro posto e di cui probabilmente dovranno rispondere i rispettivi specialisti – ma il motivo principale è la violazione del principio di sicurezza di base per tali dispositivi. La mancanza e la rimozione spontanea del terzo elemento: collocare dispositivi pericolosi in una sorta di capsula obbligatoria che limiti la possibilità di dispersione di materiali e radioattività dalla centrale o dal reattore stesso. Questo è il motivo principale dell’entità dell’incidente. Questa è la tesi che voglio sviluppare quando si parla delle cause dell’incidente.

La successiva porzione di racconto riguarderebbe in particolare le specifiche di design del reattore, i difetti di questo progetto e la descrizione sequenziale delle cause che hanno portato all’incidente stesso. Innanzitutto va precisato che quella notte venne effettuato un esperimento che non avrebbe dovuto essere eseguito in una centrale nucleare, perché il valore del coast-down della turbina al minimo è qualcosa che dovrebbe essere misurato su un apposito stand costruito dal progettista della turbina. Voglio che questo venga sottolineato. Questo è ciò che ha costretto la direzione della centrale, apparentemente per buone intenzioni, a eseguire questo esperimento. Questo, in primis.

In secondo luogo, l’assenza di pensiero sistematico e critico da parte della direzione della centrale coinvolta in questo caso. Quando i primi esperimenti del 1982 e del 1983 mostrarono che durante un coast-down la turbina non mantiene i parametri elettrotecnici necessari per servire le proprie esigenze della centrale, nessuno pensò a risolvere questo problema da un altro punto di vista, più precisamente, riducendo il tempo necessario per i generatori diesel di backup per avviarsi e produrre ai livelli di potenza richiesti. Piuttosto, si andò nella direzione di aumentare il tempo di coast-down della turbina, quando, a quel tempo, esistevano già generatori diesel che potevano produrre i livelli elettrotecnici richiesti da due a tre volte più velocemente di quelli installati nella stazione di Chernobyl. La procedura più semplice sarebbe stata quella di sostituire i generatori diesel della centrale di Chernobyl con quelli che avrebbero funzionato meglio e tutto quel processo di test e controlli sarebbe semplicemente diventato inutile. Questo fatto va notato.

È poi necessario descrivere in dettaglio come sia andato l’esperimento stesso, chi lo ha approvato, chi non lo ha approvato, come sono state violate le procedure e come si è sviluppato l’incidente. In che cosa consiste l’elemento più importante in questa descrizione? Per qualche ragione, molte fonti affermano che c’è stata un’esplosione, o due esplosioni, o un’esplosione di idrogeno, o un’esplosione senza idrogeno. Ad oggi è stato accertato in modo assolutamente attendibile, e va scritto senza ambiguità, che ci furono due esplosioni consecutive, la seconda più potente della prima. Anche questo fatto va notato.

In secondo luogo, non si può parlare dell’esplosione dell’idrogeno senza menzionare che, oltre all’esplosione di vapore, si aggiunse energia chimica relativa alle interazioni all’interno di tutta quella massa fusa. Va detto che tutte le valutazioni quantitative mostrano che la potenza dell’esplosione fu stata equivalente a circa tre o quattro tonnellate di tritolo. Oggi, questo numero può essere inteso come un numero stabilito in modo affidabile in modo che numeri come decine di tonnellate (o chilotoni) non girino liberamente come informazioni attendibili. Tre o quattro o fino a dieci tonnellate di tritolo, questo è il massimo che si possa stimare.

Dalle caratteristiche dell’esplosione, dal bagliore e dalla dispersione è chiaro come il sistema abbia avuto un’esplosione dalla detonazione volumetrica. C’è stata una detonazione volumetrica. L’esplosione era di natura volumetrica. Ciò significa che la rapida espansione del vapore, costantemente riscaldato termicamente, portò al danno che è stato testimoniato. I dati sul rilascio di carburante sono invece meno noti.

Quindi andrebbe descritto lo scenario accettato di ciò che è accaduto nel reattore con il combustibile: l’ora in cui ha iniziato a riscaldarsi, l’ora in cui ha smesso di riscaldarsi, il ruolo del sistema di raffreddamento e così via. È molto importante descrivere le misure che vennero prese dopo l’incidente e il loro significato. Ad esempio: un giorno di ritardo nell’agire ha avuto qualche effetto? Il primo giorno, il 26, tranne versarvi l’acqua di notte, la notte del 26 non si fece nulla. La caduta di, diciamo, sabbia, dolomite, argilla iniziò intorno al 28. Le prime quantità furono, a quanto pare, a partire alla fine della giornata del 27.

Tutto questo andrebbe descritto a fondo perché sarebbe necessario spiegare con precisione le implicazioni fisiche di ogni azione. Perché era come segue. Ad esempio, in primo luogo, secondo il pensiero della Commissione Governativa, c’era sul tavolo un’opzione per non fare nulla e lasciare bruciare la grafite. Ciò avrebbe significato l’espulsione di particelle di grafite radioattiva su grandi distanze. La velocità massima di combustione alle temperature da noi stabilite (data la temperatura di combustione della grafite) è di circa una tonnellata all’ora. Quindi si può fare di calcolo. Dato che ci sono 2.400 tonnellate, l’incendio sarebbe continuato per 2.400 ore. In questo lasso di tempo, ci sarebbe un’emissione di radioattività in forma di aerosol su grandi distanze. Ciò significava che il fuoco della grafite dovesse essere estinto come prima cosa. Questo è il motivo per cui la sabbia venne utilizzata come mezzo per spegnere il fuoco.

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