I nastri di Legasov - NASTRO 2, LATO A

I nastri di Legasov – NASTRO 2, LATO A

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Immediatamente vennero proposte delle soluzioni pratiche per la protezione delle acque di faglia. La prima – per il quale sviluppo vennero coinvolti numerosi esperti del Goskomgidromet e di altre organizzazioni regolamentanti, come per esempio la Minvodkhoz – fu quella di costruire una barriera intorno all’intero suolo del sito contaminato della Centrale Atomica di Chernobyl, scavando delle trincee da riempire poi con il cemento, realizzando così una sorta di cubo che prevenisse la dispersione di acqua radioattiva. Inizialmente vennero acquistati macchinari italiani che fossero in grado di sostenere un lavoro simile effettuato a grande intensità.

Dopo ulteriori sondaggi, dopo valutazioni più accurate in merito alle condizioni radiologiche dell’acqua e della migrazione di radionuclidi in acqua, unitamente a test sulla tecnologia italiana e la valutazione delle sue performance, divenne chiaro che tale soluzione non fosse giustificata. Così Minvodkhoz propose una soluzione più efficace: circondare il territorio contaminato con un numero adeguato di pozzi artesiani (circa 1450), alcuni dei quali sarebbero stati utilizzati per misurare il livello di radioattività dell’acqua in transito; se fosse stato necessario, in presenza di acqua radioattiva essa sarebbe stata pompata fuori con dei mezzi speciali, prevenendo così il raggiungimento dell’acqua di faglia.

L’atto pratico dimostrò che questa fosse la decisione più corretta. Grazie a tutti i pozzi – specialmente quelli di misurazione – apparve chiaro come praticamente non ci fosse penetrazione di acqua radioattiva in profondità. Fino ad oggi, non mi risulta un singolo caso dove il pompaggio dell’acqua si sia reso necessario a causa di contaminazione. Fu così che la barriera venne costruita nel terreno solo in un punto, nell’area più contaminata, e quello fu quanto. I pozzi vennero posizionati, monitorati e resi pienamente funzionali.

Dato che, dopo il rilascio, parte della radioattività finì in acqua, il passo successivo fu quello di proteggere il bacino del Dnieper e il restante sistema di bacini idrici tramite la costruzione di dighe contenenti sostanze in grado di assorbire particelle radioattive e radionuclidi qualora fossero apparsi nell’acqua di fiumi piccoli o grandi. Dighe di questo tipo furono così costruite e giocarono un ruolo positivo. Grazie a questo la contaminazione delle acque non superò mai le concentrazioni massime ammissibili.

È necessario riferire che i compagni ucraini proposero inizialmente un piano per creare un canale di bypass che avrebbe deviato le acque dal fiume Pripyat lontane dal bacino del Dnieper. Questo intervento sarebbe costato miliardi e un tale canale avrebbe dovuto transitare attraverso il territorio bielorusso. Sarebbe stato molto, troppo costoso. In effetti avrebbe garantito che nessuna acqua contaminata raggiugesse il mare di Kiev, una riserva idrica immensa. Una volta ancora venne creata una commissione, stavolta guidata dal compagno Voropaev, la quale analizzò in dettaglio la situazione. Ancor prima che venisse creata questa commissione, ero stato incaricato di valutare questo progetto. Basandomi sulle semplici valutazioni che potessi fare, questo progetto appariva ridondante. Dato il sistema di pozzi e dighe già stabilito, lo scambio di radioattività tra l’acqua e il limo non poteva mettere in alcun modo in pericolo il bacino del Dnieper. La commissione effettuò delle valutazioni molto più approfondite, ma giunse alle mie stesse conclusioni. Pertanto, questo progetto venne accantonato e come poi la realtà dei fatti mostrò, esso sarebbe stato economicamente impraticabile, non portando nessun beneficio in termini di protezione del bacino del Dnieper.

Acquisiti dati più precisi, gli operatori di Kiev si predisposero alla possibilità di utilizzare acqua proveniente da un’altra sorgente, dal Dniester, per approvvigionare la città e per rendere possibili gli sforzi nella creazione di ulteriori pozzi artesiani. In caso l’acqua del Dniester si fosse contaminata oltre le concentrazioni tollerabili, alla città sarebbero state offerte ulteriori, diverse fonti. Tutte le attività preparatorie vennero realizzate in un modo molto rapido e organizzato. Tutto potenzialmente utile ma poi, di fatto, inutilizzato poiché, né prima dell’alta marea di primavera, né dopo le acque del bacino del Dnieper, risultarono contaminate in concentrazioni superiori a quelle ammissibili per la salute umana. Sostanzialmente, almeno in generale, il bacino del fiume non venne inquinato.

Nei primi giorni, in alcuni punti del bacino fluviale, va detto, in alcuni campioni venne però riscontrata un’attività fino a 10-8 curie per litro. Secondariamente, i limi – inclusi quelli del bacino del Dnieper – risultarono contaminati, specialmente quelli dello stagno di raffreddamento fuori della Centrale Nucleare di Chernobyl e comunque anche più a valle, lungo il Pripyat e il Dnieper. La quantità di radionuclidi contenuti nei limi è attualmente considerevole. Fortunatamente, la natura agisce a nostro vantaggio, in quanto i limi tendono a trattenere le singole particelle radioattive piuttosto saldamente. Sono in corso ricerche approfondite su questioni come e se una parte di questa radioattività catturata dai limi stia penetrando negli organismi che vivono nell’acqua. Questa attività è in corso e ne avrà per un bel pezzo. Le conclusioni preliminari dicono che la fauna acquatica che vive vicino alle sponde, senza dubbio, porterà con sé della radioattività, sebbene nessun sintomo sia stato sinora accertato.

Secondariamente, la riva e i fiumi piccoli e grandi, il litorale, dall’acqua del disgelo primaverile in grado di portare con sé svariati detriti contaminati ed elementi radioattivi – schegge di legno, aghi di pino caduti dalle foreste contaminate – avrebbero potuto causare un significativo danno radioattivo. Fu così che la protezione dei fiumi da questi oggetti contaminati che avrebbero potuto inquinarli divenne un grosso grattacapo. In questo scenario l’Esercito Sovietico giocò un ruolo determinante nel minimizzare l’eventualità di un inquinamento e nell’affrontare il problema della pulizia e della raccolta di tali oggetti potenzialmente contaminanti da tali aree. Tanto grosso il problema, tanto intenso l’impegno profuso dall’Esercito.

Dato che ho già iniziato a parlare dell’Esercito, devo dunque dire che al momento in cui esso venne ingaggiato, la portata del lavoro era davvero ampia. Le forze di reazione alle emergenze chimiche dovettero, innanzitutto, lavorare sulle valutazioni, stabilendo l’area di contaminazione. All’Esercito venne data la responsabilità di lavorare presso la centrale stessa e di decontaminare i villaggi, le case e le strade in un raggio di tre chilometri. Fecero un lavoro colossale.

Malgrado vari ricercatori individuali avessero proposto varie soluzioni per la soppressione delle polveri contaminate, nell’estate del 1986 uno dei maggiori problemi fu proprio quello di impedire la diffusione delle stesse su lunghe distanze. Per far ciò, un ampio ventaglio di soluzioni chimiche venne testato in merito al fatto che fosse facile produrle e che fossero permeabili all’acqua ma che al contempo consentissero un sostanziale abbattimento delle polveri. Queste formulazioni, nonché il loro test e l’organizzazione del lavoro per distribuirle su ampie superfici, furono in carico all’Esercito. Un lavoro organizzato in modo molto meticoloso.

Un enorme mole di lavoro venne eseguita dall’Esercito anche nel decontaminare la città di Pripyat. In un momento non precisato della fine di agosto, settembre o ottobre, quando la città era in condizioni da poter ancora esser preservata, tutto sommato era sicuro viverci; questo non significa che la città potesse essere abitata normalmente, ma che non rappresentasse più alcun pericolo specifico perché le operazioni dell’Esercito di quei mesi avevano portato a questa condizione.

La decontaminazione dei locali del primo e secondo blocco furono altresì àmbiti nei quali le unità dell’Esercizio parteciparono attivamente e in condizioni difficili per le quali fu mandatorio che soldati e ufficiali coinvolti nel lavoro non superassero una dose di radiazioni superiore a 25 rem. Più tardi, questo limite venne generalmente ridotto ma comunque osservato e applicato – anche se, naturalmente, ci furono casi fastidiosi, ridicoli e tragici a cui assistetti coi miei occhi.

In uno di tali sfortunati casi, per esempio, vidi gruppi di soldati che disponevano di un unico dosimetro non individuale, ma di gruppo, in carico a un loro ufficiale o sottoufficiale, il quale provvedeva a una semplice stima delle dosi subite dai soldati. Non si trattava di un comportamento diffuso, ma capitava. Talvolta i comandanti attribuivano forti dosi ai soldati che lavoravano con maggiore intensità a mo’ di incentivo, per far in modo che i soldati si impegnassero e potessero così lasciare in fretta la zona, mentre i più indolenti avevano attribuzioni inferiori. Quando questi comportamenti divennero pubblici, scoppiò uno scandalo: cessarono immediatamente, ma intanto qualche caso c’era stato.

Non ho mai testimoniato un singolo caso nel quale specialisti dell’Esercito Sovietico o anche solo di semplici cittadini sovietici fossero stati reclutati per lavori difficili o pericolosi tramite mezzi coercitivi. Ci saranno anche stati dei casi, ai quali però non ho mai assistito in prima persona. Al contrario, io per primo mi recai più volte nelle zone pericolose del quarto blocco per chiarire i dati di ricognizione o per stimare la quantità di lavoro per determinate operazioni portandomi sempre dietro soldati per dare una mano. Sempre e solo chiedendolo. Quando un gruppo di soldati mi veniva presentato, spiegavo sempre le condizioni in cui avrebbero lavorato, specificando che avrei lavorato solo con chi si fosse reso disponibile volontariamente. Non ci fu mai un caso – e il numero di tali circostanze fu elevato – in cui qualcuno rimanesse in riga senza fare quel passo avanti, indice della volontà esplicita di entrare nel nostro team scientifico per aiutarci a compiere vari, talvolta davvero difficili, compiti.

Su proposta del Generale Damiyanovich venne realizzato nella zona dell’incidente un centro militare allo scopo di garantire che i loro specialisti – le unità militari di decontaminazione e tutti gli altri compiti assegnati all’Esercito – non agissero in modo casuale, a tentativi, ma in modo più consapevole. Questo centro militare venne organizzato in modo da selezionare gli equipaggiamenti e le condizioni di lavoro più appropriate, nonché la scelta dei percorsi sullo sviluppo di metodi tecnologici per le attività di decontaminazione. La presenza di un centro militare così organizzato giocò un ruolo particolarmente positivo, in quanto consentì che il lavoro venisse eseguito in modo sufficientemente veloce e con esposizioni alla radioattività limitate. Generalmente le quantità di tali esposizioni furono comunque alte, data la grande quantità di lavoro e di personale impiegato; tuttavia, esse vennero minimizzate dall’attività di questo centro, il quale lavorò in collaborazione con l’organizzazione scientifica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS e con l’Istituto per la ricerca sull’Energia Atomica di Kiev. Il centro ebbe un ruolo davvero determinante.

Non solo le attività di decontaminazione venivano effettuate in modo incredibilmente veloce, ma anche la costruzione dei nuovi villaggi residenziali destinati ad alcuni degli evacuati fu particolarmente rapida. La costruzione del villaggio “Green Cape” – destinato agli operatori del primo e del secondo blocco della Centrale Nucleare di Chernobyl – fu sorprendentemente veloce. Il lavoro non solo fu rapido, ma anche di qualità e, aggiungerei, realizzato con stile.

Arrivati a questo punto voglio dire che, in particolare nel periodo iniziale, considerando quanto la situazione fosse tragica, considerando la disperazione e, aggiungerei, considerando l’assenza di competenze tecniche, di esperienza nella gestione di una catastrofe di tale scala, la confusione e l’incertezza avrebbero potuto facilmente prendere il sopravvento nel processo decisionale. Non fu così. In qualche modo, indipendentemente dai ranghi, indipendentemente dai compiti che le persone si videro assegnare, tutti formarono una squadra finemente sintonizzata, in modo particolare nei primi giorni. La componente scientifica del team, la quale era responsabile della correttezza delle decisioni, le prese senza il supporto di Mosca, di Kiev o di Leningrado. Piuttosto, il supporto giunse sotto forma di consulto, di verifica di numerosi esperimenti, sotto forma dell’immediato arrivo di specialisti convocati all’occorrenza: ogni qual volta giungemmo ad alcune ragionevoli decisioni scientifiche, la leadership della Commissione Governativa poté, con l’aiuto del Gruppo Operativo o di uno dei suoi membri, ottenere istantaneamente tutto il materiale necessario di cui ci fosse bisogno per eseguire il lavoro pertinente in un tempo incredibilmente breve, letteralmente in pochi giorni, talvolta ore.

Ricordo che sul sito, a Chernobyl, operava anche il presidente del Comitato di Pianificazione Governativa Ucraina, Vitaly Andreyevich, membro del Gruppo Operativo, una persona molto calma ma energica, in grado di capire le cose ancor prima tu avessi finito di parlare. Ascoltava sempre le nostre discussioni scientifiche – le nostre considerazioni, cosa ci servisse – e reagiva istantaneamente. Ci serviva azoto liquido per raffreddare il blocco quattro, e lui sorrideva rispondendo che tali carichi erano già stati ordinati. Lo stesso dicasi per tutti gli altri materiali, diciamo ossido di magnesio contenente carbonio? Fatto. Otteneva il tutto dalle fabbriche metallurgiche ucraine o da altri posti, sta di fatto che tutto questo materiale veniva consegnato. È difficile sovrastimare il lavoro del gruppo dedito alle forniture, capitanato dal presidente del Grossnab ucraino, l’ente preposto alle forniture – il quale lavorava per conto di Vitaliy Andreyevich Solov, il presidente del Gosplan ucraino, l’ente di pianificazione economica – che, da Kiev, operava al fine di garantire che tutto il materiale necessario a Chernobyl, sebbene le quantità fossero ben oltre l’immaginabile.

Assieme ai materiali tecnici, un enorme esercito di gente portata sul sito prevedeva l’approvvigionamento di cibo, acqua e vestiti; andavano organizzati servizi di lavanderia e di pulizia, di ispezione e molto altro. Ancora oggi è difficile capire come questa colossale organizzazione venne realizzata. Ovviamente tutto questo mi ricordò il periodo della guerra – che ricordavo dai tempi dell’infanzia – un lavoro di logistica e di organizzazione certamente importante, se non di più, di quello degli uomini in prima linea coinvolti in modo diretto nella decontaminazione vera e propria, nelle misurazioni, nella diagnostica e in altri compiti analoghi. Il lavoro di fornitura di tutti i materiali necessari, delle provviste, giocò un ruolo fondamentale.

Parlando con semplicità di tali impressioni, di tali osservazioni, non posso tacere sul fatto che il primissimo giorno della mia presenza a Chernobyl venni colpito da due fatti specifici. Ero abituato a trattare con gente del KGB (il Comitato per Sicurezza Governativa), data la natura del loro lavoro: quella di persone abituate a proteggere i segreti di stato, che organizzano il controllo su persone abilitate a lavorare in ambiti segreti e importanti, che coordinano servizi allo scopo di proteggere documenti, corrispondenza, documentazioni tecniche, il che garantisce che i segreti di stato rimangano tali. Questo per lo meno era ciò che sapevo del KGB. Comunque, tramite storie e letteratura, sapevo anche che questo Comitato era coinvolto in attività di spionaggio e controspionaggio.

A Chernobyl incontrai dei giovani individui davvero molto organizzati e precisi, i quali adempievano ai propri doveri nel modo migliore possibile. E sì che questi doveri non erano semplici. In primis l’organizzazione iniziale di una comunicazione chiara ed efficace, il che venne realizzato in un giorno. Su tutti i canali di comunicazione essi lavoravano con chiarezza e con rapidità. Erano inoltre responsabili nel garantire che l’evacuazione avvenisse senza panico o sentimenti analoghi, senza eccessi che avrebbero potuto ostacolare il lavoro. E tanto fecero. Ma come lo fecero, come lo resero possibile, non riesco ancora ad immaginarlo in quanto ne conosco solo gli effetti. Nulla, infatti, impedì l’organizzazione di questa insolita e difficile operazione. Rimasi semplicemente deliziato dall’attrezzatura tecnica e dalla competenza in questo gruppo.

L’esatto opposto fu il lavoro, per esempio, del gruppo di Protezione Civile per come era composto nei primi giorni. Semplicemente, mi sconvolse. Sembrava che ad ogni passo ne facessimo due indietro, che venisse sprecato un sacco di tempo. Dovevamo sobbarcarci un sacco di questioni di loro competenza. Il Generale Ivanov, inizialmente al comando di questo gruppo, a mio avviso fallì. Non sapevano cosa fare e, quando ricevevano dirette istruzioni, non riuscivano a dimostrare nessuna capacità di gestione della situazione. Non si tratta di sole opinioni personali. Molti avvertirono questa condizione, in modo sottile, per la quale parte del lavoro era eccellente, ma quando si trattava della Protezione Civile, sin dai primi giorni, l’opinione era negativa. Questo va detto e non nascosto.

Durante i primi giorni della tragedia di Chernobyl i difetti nell’informazione erano piuttosto evidenti. Sebbene avessimo le case di pubblicazione Atomenergoizdat (precedentemente note come Atomizdat) a rappresentare il gotha della conoscenza, saltò fuori che la letteratura a tema da distribuire alla popolazione per spiegare quali fossero le dosi pericolose per gli umani, come comportarsi all’interno della zona di incrementato pericolo radioattivo, o comunque un sistema che potesse correttamente informare su cosa misurare, come farlo, come trattare frutta e verdura la quale superficie potesse esser contaminata da radiazioni alfa, beta e gamma – ebbene tutta questa letteratura era totalmente assente. Vi erano svariati libri per esperti, precisi e accurati, ben scritti; questi erano raccolti nelle biblioteche. Erano però i primi – volantini, brochure ed altro – ad essere potenzialmente utili ma realmente assenti. Per sapere quale pulsante premere, quanto attendere, cosa fare. Praticamente nessuna pubblicazione di questo tipo era disponibile nel paese.

Ho già citato la mia proposta iniziale nel creare un gruppo stampa sotto il controllo della Commissione Governativa, la quale avrebbe potuto correttamente informare la popolazione in merito agli avvenimenti in corso e fornire i giusti consigli. Per qualche ragione, questa proposta non venne accettata. Dopo l’arrivo di Ryzhkov e Ligachev nella zona del disastro, i giornalisti vennero accreditati. Se ne presentò una grande quantità. Però, sapete, è difficile dirlo persino ora: era certamente positivo che molti fossero accreditati, mentre non lo era il fatto che la cosa non fosse organizzata in modo appropriato. Perché? I giornalisti arrivarono, in grande varietà, molti dei quali piuttosto validi. Si presentò per esempio una squadra della Pravda, la direzione scientifica del Gubarev, di Odinets, alcuni giornalisti Ucraini nonché svariati documentaristi. Vidi però come operarono, avvicinando singole personalità importanti presenti, premendo poi un pulsante e intervistandoli su specifici problemi o questioni. Talvolta riuscirono a intervistare il responsabile della Commissione Governativa, oppure un membro della stessa, ogni volta in merito (e sempre solo) a specifiche questioni. Ovviamente, essi impiegavano gran parte del loro tempo sul sito. Parlavano con persone evacuate o con operatori del quarto blocco in merito alla decontaminazione e queste informazioni, conseguentemente, venivano diffuse.

Ciò che raccolsero, che venne pubblicato, ovviamente è di straordinaria importanza da un punto di vista sia storico che archivistico, in quanto materiale raccolto dal vivo. E questo, ovviamente, fu necessario ed essenziale. Allo stesso tempo, però, dato che le informazioni venivano presentate ogni volta da un punto di vista particolare, specifico, il paese non otteneva un completo quadro quotidiano, o almeno settimanale, della situazione, proprio perché le informazioni provenivano da fonti diverse e separate. I minatori lavoravano eroicamente ma non avevano informazioni relative al livello di radiazioni al quale erano sottoposti; cosa succedesse nella vicina regione di Brest, come misurare il tutto e come farlo. Fu così che, insieme a descrizioni particolarmente accurate arricchite da commenti, ci furono anche un sacco di inaccuratezze.

Per esempio, la stampa perse un sacco di tempo appresso al cosiddetto “spillo”. Si trattava di un componente che andava piazzato all’interno della cintura del quarto blocco e che avrebbe fornito informazioni continuative in merito alla temperatura, ai campi di radiazione e alcuni altri parametri. Gli sforzi per posizionare tale sensore nel posto giusto tramite elicotteri furono enormi, ma le informazioni che fornì furono praticamente nulle. Servì, in pratica, solo a confermare la bontà della raccolta di tali informazioni in altre modalità più semplici e disponibili. Fu così che l’episodio dell’installazione di tale “spillo” venne descritto in modo molto elaborato ed esteso ma, in definitiva, inutile.

Al contempo, l’enorme quantità di lavoro effettuata tramite dosimetri, quello modesto ma importante effettuato dal giovane personale dell’Istituto Kurchatov capitanato da Shekalov, Borov o Vasiliev, il lavoro del gruppo “Ryanovskaya” capitanato da Petrov o quello di Kombanov, atto a misurare l’efficacia delle iniziative per la riduzione delle polveri, le logiche di tutti questi lavori e l’analisi dei progetti intrapresi – tutto questo non vene descritto appropriatamente. Principalmente, inoltre, non venne offerta alcuna cronologia delle varie fasi. In questa situazione, molte persone sentivano informazioni qua e là, il che portava a pettegolezzi esagerati; ovviamente tali pettegolezzi vertevano sul numero di persone colpite da malori a causa delle radiazioni, sul livello di contaminazione di Kiev e sull’ampiezza dell’area contaminata. Ogni pausa nella costruzione del sarcofago veniva frequentemente interpretata come una sorta di catastrofe, come se fosse collassata qualche struttura con conseguenti nuove emissioni di radioattività, o come prova che il reattore fosse nuovamente vitale, eccetera. Nessuna informazione sistematica adeguata veniva fornita in merito a queste domande. Questo, ovviamente, diede origine a ogni sorta di raffigurazioni sbagliate e di panico, e quando non di panico, comunque erronee.

Per svariati mesi, lo stato delle emissioni dal quarto blocco fu oggetto di dibattito persino nella comunità scientifica. Il fatto è che gli esperti – coloro che lavoravano direttamente alla centrale, esperti del servizio idrometeorologico – avevano precisamente misurato le dinamiche di fallout. La prima, la più potente emissione, fu quella che produsse milioni di curie di radioattività sotto forma di gas nobili e iodio radioattivi. Questa emissione fu quella registrata da quasi tutte le nazioni del mondo. Conseguentemente, ci furono alcuni giorni di emissioni di particelle di combustibile radioattivo, principalmente a causa della combustione della grafite. L’emissione di queste particelle cessò intorno al 2 maggio. Poi il combustibile cominciò a surriscaldarsi, così ci fu un’emissione di particelle come cesio e stronzio, la quale continuò in tutta l’area di contaminazione conosciuta fino al 20-22 di maggio. Comunque, a partire dai primi di maggio, il decremento della radioattività emessa dal quarto blocco fu costante.

La prima carica radioattiva emessa, comunque, venne involontariamente propagata in diverse aree anche tramite l’effetto delle gomme di molti veicoli in circolazione. Il trasferimento di polveri a causa dell’estate secca fu un altro fattore determinante. Tutto ciò veniva erroneamente attribuito all’idea che il reattore fosse ancora attivo e continuasse ad emettere nuova radioattività, contribuendo a creare un ambiente stressante per coloro che lavoravano alla decontaminazione.

Fin tanto che qualcosa veniva emesso dal quarto blocco, continuavano ad emergere progetti ridondanti, come quello di creare una sorta di calotta cranica sopra la struttura. Combattei contro questo progetto e la sua inutilità sin da maggio. Tuttavia, svariate organizzazioni facevano questo lavoro di creazione di progetti per un guscio esterno che, se installato, avrebbe complicato i successivi lavori di costruzione del sarcofago e non avrebbe avuto effetti pratici nella riduzione delle emissioni di radiazione sotto forma di aerosol. Ciononostante, le voci in merito al fatto che il reattore stesse ancora bruciando – con conseguenti considerevoli emissioni di radioattività – portarono all’ordine di produrre svariati tipi di coperture per esso. Vennero progettate e testate, ma la questione si chiuse quando uno di questi costrutti precipitò al suolo al sollevamento da parte di un elicottero per il test e venne completamente distrutto. Questi progetti, che così cessarono, venivano ideati sotto l’influenza di pettegolezzi, informazioni inaccurate, e fallirono. Grazie a Dio, nessuno di tali progetti venne implementato. Avrebbero solo complicato il lavoro.

Rammento come durante la guerra ci fossero due tipi di comunicazioni quotidiane pubblicate sui quotidiani o sul report della TASS: quando riconquistavamo posizioni tedesche, dove ci ritiravamo, dove prendevamo un gran numero di prigionieri, dove soffrivamo parziali sconfitte. Si trattava di una precisa comunicazione ufficiale che forniva un resoconto degli sviluppi gioiosi e amari in prima linea. Quelle informazioni TASS erano accurate, ma insieme ad esse c’erano anche molti articoli giornalistici su battaglie e persone specifiche, sugli eroi al fronte interno, eccetera. Così, a Chernobyl, la stampa riportava molte informazioni del secondo tipo in merito alle persone, alle loro impressioni, in merito a costa stesse succedendo lì, ma riportava molto poco, diversamente dalla tipica informazione TASS, in merito a quanto fosse accaduto sin a quel momento e cosa stesse progressivamente cambiando. Questo, a mio parere, era un primo difetto del sistema di comunicazione. Secondariamente, c’erano troppi pochi interventi di scienziati esperti.

Forse ricordo giusto un intervento da parte del Professor Ivanov dell’Istituto di Ingegneria e Fisica di Mosca. Un ampio articolo era stato pubblicato dove egli provava a spiegare con semplicità cosa fossero i rem, i milliroetgens e in che misura essi mettessero a repentaglio la salute umana, o a quale livello non lo facessero e come comportarsi in condizioni di crescenti livelli di radioattività. Questo, per quanto posso ricordare, fu l’unico tentativo con un effetto calmante sul prossimo. Comunque, il numero di tali articoli avrebbe certamente potuto essere incrementato.

La mia opinione era che fossero eccessivamente modesti e cauti scrivendo di ciò che era accaduto alla centrale, sulle cause dell’incidente, se il reattore fosse difettoso o se le azioni degli operatori fossero state sbagliate. Ovviamente, molto è stato scritto in merito a questi punti e io stesso fui coinvolto nel descrivere gli eventi che precedettero l’incidente. In realtà, credo che il quadro completo in merito a ciò che successe precisamente, e come, non sia chiaro a nessuno. Nel complesso, questa situazione straordinaria – non una situazione banale, bensì una situazione tragica, una situazione difficile di immensa portata – ha dimostrato di richiedere non solo la mobilitazione di notevoli risorse di comunicazione, ma anche un uso molto creativo e abile di queste risorse, al fine di garantire che la popolazione riceva le informazioni nelle sequenze e nelle quantità necessarie così da fare riferimento a tali informazioni con assoluta fiducia e, soprattutto, essere in grado di utilizzare queste informazioni per scopi pratici; oppure, per indicare quando preoccuparsi e, viceversa, quando mantenere la calma in modo che il tutto sia abbastanza regolare e non repentino. Nel complesso, queste erano domande estremamente importanti.

Talvolta, penso addirittura che un evento di tale magnitudo avrebbe potuto meritare un canale tv o una sezione sui quotidiani composte da due parti. La “parte Chernoby”, per così dire, avrebbe potuto essere solo relativa alle informazioni precise provenienti dalla Commissione Governativa, mentre la seconda parte avrebbe potuto riguardare la componente emozionale, narrativa, alimentata da opinioni personali. Questa, nel complesso, è una questione seria su come e in che misura coprire eventi così grandi, spiacevoli e difficili che colpiscono e allarmano quasi l’intera popolazione del paese – e non solo il nostro paese.

Dato che ho accennato un po’ alla comunicazione, menzionando un po’ il reattore, potrebbe essere un buon momento per esprimere alcune opinioni personali su come diavolo sono stato coinvolto in questa storia, come sono stato collegato ad essa, come l’ho capita e sulla qualità dello sviluppo dell’energia nucleare per come la capisco ora. Raramente qualcuno di noi ne ha parlato in modo sincero e preciso.

Mi sono laureato alla Facoltà di Energia Fisico-Chimica presso l’Istituto di Chimica e Tecnologia intitolato a Mendeleyev. Questa facoltà formava specialisti, principalmente ricercatori, i quali avrebbero lavorato nel campo dell’industria nucleare, così da renderli capaci di separare isotopi, di lavorare con sostanze radioattive, estrarre uranio dai minerali, portarlo alle condizioni necessarie per renderlo combustibile nucleare, ma anche trattare materiali ad alta radioattività rimossi dai reattori al fine di estrarne le componenti utili così come quelle pericolose, essere in grado di compattarli, seppellirli in modo che non danneggino l’uomo, utilizzare parti di risorse radioattive per l’economia nazionale, talvolta la medicina. Questo è l’insieme di argomenti specifici su cui mi sono formato.

Successivamente, ho preso un master all’Istituto Kurchatov nel campo del riprocessamento del combustibile nucleare. L’accademico Kikoev provò a convincermi a rimanere nell’ambito degli studi post-laurea, in quanto aveva apprezzato la mia tesi. Io e i miei compagni, però, acconsentimmo di lavorare per un periodo presso una centrale atomica per ottenere alcune abilità pratiche sul campo, le quali sarebbero poi diventate oggetto delle nostre ricerche. Ero un sostenitore di questa idea e quindi non accettai l’offerta di studi post-laurea e partii per Tomsk. Mi recai in una di queste città chiuse (era necessaria un’autorizzazione per accedervi) e partecipai all’avvio di una di queste centrali radiochimiche. Fu molto interessante. I tempi eccitanti di un giovane uomo che comincia a mettere in pratica gli studi. Lavorai presso questa centrale per circa due anni. Dopodiché venni allontanato con il permesso del partito (ero già un comunista dai tempi dell’Istituto) per riprendere i miei studi post-laurea nuovamente presso l’Istituto Kurchatov.

Con l’incoraggiamento del mio amico e compagno Vladimir Dmitrievich Klimov, il quale lavorò lì, superai gli esami di candidatura dell’Istituto Politecnico Tomsk e lasciai dopo aver superato gli esami per lavorare alla mia tesi di candidatura. La prima tesi di candidatura che mi venne proposta verteva sull’affrontare il problema di un ipotetico reattore in fase gassosa contenente esacloruro di uranio gassoso come combustibile, quindi l’interazione ad alte temperature di tale esacloruro con i materiali da costruzione. Questo era il tipo di problemi sui quali facevo ricerca. Dopo aver ottenuto molti dati, scrissi un ampio rapporto che avrebbe potuto rappresentare la base della mia dissertazione, oppure addirittura la dissertazione essa stessa.

A questo punto, però, il mio compagno postlaurea Viktor Konstantinovich Popov mi informò che in Canada il Professor Bartlett aveva realizzato un eccellente, anzi sconcertante lavoro nell’ottenimento di un composto di xeno, uno dei gas nobili. Questa informazione catturò la mia immaginazione, così concentrai tutti i miei seguenti sforzi professionali per sintetizzare tale inusuale composto utilizzando vari metodi fisici, il che avrebbe fornito potenti agenti ossidanti capaci di una serie di proprietà insolite sulle quali sarei stato ben felice di lavorare e sulla base delle quali sarebbe stato possibile costruire un’intera gamma di processi tecnologici.

Questo è come il mio lavoro professionale stava progredendo, il quale mi diede le capacità successive di sostenere la tesi di candidatura, la tesi di dottorato e le dissertazioni. Più tardi lo sviluppo di questi lavori venne valutato per eleggermi presso l’Accademia delle Scienze. La componente di ricerca venne premiata con il Premio Statale dell’URSS. La componente applicata, invece, venne premiata con il Premio Lenin. Così, questo fu il mio lavoro professionale al quale riuscii ad attirare i giovani più interessanti che con stile, con una buona educazione e comprensione, stanno tuttora sviluppando quest’area estremamente interessante della fisica chimica, dalla quale sono sicuro che avranno origine moltissimi sviluppi, importanti per la pratica e per l’istruzione.

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