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Il lavoro di successo in questo settore attrasse l’attenzione del direttore dell’Istituto, e questo mi consentì di avvicinarmi a lui al punto da nominarmi vicedirettore. Le responsabilità scientifiche erano limitate alle mie personali attività. Per quanto riguarda la distribuzione delle responsabilità che avevamo nella direzione, e che abbiamo tuttora, mi vennero assegnati compiti relativi alla fisica chimica, alla fisica radiochimica e all’uso di sorgenti nucleari e di plasma per scopi tecnologici. Questa era la gamma di attività professionali nelle quali ero coinvolto.
Dopo l’elezione di Anatoly Petrovich Alexandrov quale presidente dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, egli mi nominò vicedirettore di tale istituto, affidandomi svariate responsabilità in merito alla sua gestione, senza però variare le mie responsabilità nella sfera scientifica. Non c’erano nuovi settori per i quali fossi responsabile.
Come in precedenza, Eugeny Pavlovich Velikhov era pienamente responsabile per la parte preminente delle attività dell’Istituto: la fisica dei plasma e la fusione nucleare controllata. Vyacheslav Dmitrievich Pismienniy era invece responsabile per la tecnologia Laser. Lev Petrovich Feoktistov, un uomo particolarmente intelligente e talentuoso, era responsabile per la fisica nucleare e delle sue speciali applicazioni pratiche. Anatoly Petrovich aveva avuto un vice per l’energia atomica, Eugeny Petrovich Ryazantsev. Prima di lui, Viktor Alekseyevich Sidorenko lavorava come direttore del dipartimento dei reattori nucleari. Ponomaryov-Stepnoi divenne invece il primo vicedirettore di energia nucleare con delega sulla costruzione di reattori nucleari.
Io, ovviamente, giravo in tondo nella scelta della mia attività. Riflettevo su quale dovesse essere la percentuale di energia prodotta per via nucleare e perché dovesse essere presente nell’ambito dell’energia Sovietica. Ero in grado di organizzare studi sistematici relativi al tipo di centrali che avrebbero dovuto esser costruite, il loro scopo, come utilizzarle saggiamente, se avessero dovuto limitarsi a produrre energia o anche altre fonti energetiche, in particolare l’idrogeno. L’energia così prodotta divenne l’ambito di mio massimo interesse.
Questi temi divennero collaterali e complementari all’energia atomica. Dato che Anatoly Pavlovich era un uomo dei reattori, creatore o partecipe nella creazione di molti di essi, egli guardò a me non solo in quanto scienziato dei reattori, ma anche come qualcuno che, dall’esterno, potesse fornire consigli inusuali e trovare soluzioni non convenzionali. Tutte queste soluzioni e consigli non riguardavano però il design dei reattori – ai quali non avevo mai lavorato – riguardavano semmai le possibili aree di utilizzo dei componenti presenti in un reattore nucleare.
Data che la necessità di sicurezza nell’energia atomica è molto sentita in svariate sfere dell’opinione pubblica internazionale, ero anche interessato alla comparazione dei pericoli reali, alle effettive minacce che l’energia nucleare porta con sé rispetto ai rischi di altri sistemi per la produzione di energia. Questo è ciò su cui lavoravo con grande passione, principalmente immaginando i pericoli delle fonti energetiche di altra natura, diverse da quella atomica.
Questo, per sommi capi, è il ventaglio di problemi sui quali lavoravo professionalmente. Certo: aiutavo attivamente Anatoly Petrovich nella gestione dell’Istituto, dato il suo impegno presso l’Accademia delle Scienze, pianificando le attività e i regimi di lavoro. Cercai di realizzare cose che tenessero assieme l’Istituto, come il Consiglio Generale del Kurchatov, il seminario generale dell’Istituto, e la creazione di varie pubblicazioni che, su ordine, sarebbero sedute sulle scrivanie dei ricercatori in modo che potessero ottenere rapidamente tutte le notizie dal loro campo. Tentai anche di organizzare occasioni di confronto di diversi punti di vista, di diversi approcci a problemi generali di fisica ed energia. Feci tutto ciò con grande entusiasmo.
La fisica e la tecnologia dei reattori era un’area a me preclusa – sia per la mia formazione e sia per il taboo imposto da Anatoly Pavlovich Aleksandrov e i suoi sottoposti coinvolti in tale settore. Non apprezzavano interferenze nelle loro attività professionali da parte di esterni. Ricordo come una volta Lev Petrovich Feoktistov, il quale aveva appena iniziato a lavorare presso l’Istituto, tentò di analizzare concettualmente le questioni in merito a un reattore più affidabile, più interessante, che potesse eliminare – problema che al tempo preoccupava maggiormente – la produzione di materiali fissili che potessero essere rimossi dal reattore e usati in armi atomiche. Queste proposte vennero accolte con ostilità; stessa cosa le proposte su un nuovo reattore più sicuro proposto all’istituto da Viktor Vladimirovich Orlov. In qualche modo tali proposte non vennero considerate dalla comunità scientifica dedita ai reattori.
Dato che non avevo autorità amministrativa su questo dipartimento, ma generalmente comprendevo molti dettagli specifici in merito a ciò che accadeva lì e comunque ero coinvolto, iniziai a suggerire al dipartimento dei reattori un approccio ingegneristico, non fisico, per risolvere i problemi. Ma, naturalmente, non potei cambiare considerevolmente la situazione. Anatoly Petrovich era dotato di un carattere empatico verso le persone con cui aveva lavorato per molti anni. Si fidava di certe persone che lavoravano su, diciamo, attrezzature navali, macchinari di stazione o dispositivi specializzati; e davvero non amava l’apparizione di volti nuovi che potessero in qualche modo infastidirlo o fargli dubitare delle decisioni prese prima. Questo è più o meno come stavano le cose.
Nella sfera scientifica, scelsi per me un campo affascinante che ho già menzionato, ovvero la fisica-chimica legata alla creazione di sostanze inusuali e di sistemi in grado di ottenere idrogeno in un modo o in un altro. Lavorai con passione in questo settore con il coinvolgimento di organizzazioni esterne, il quale aveva una quota molto piccola nell’Istituto, sia dal punto di vista economico che delle risorse umane. Il personale era operativo e interessato; molti proposero svariate soluzioni originali in grado di innescare molte discussioni scientifiche. Questo creò l’impressione che ci fosse molta attenzione sul tema, quando in realtà queste erano attività di nuove persone che entravano in una nuova industria. Quel che è certo è che le risorse sotto forma di ambienti, personale, finanziamenti stanziati in questo campo non erano certo paragonabili ai soldi che andavano a… [registrazione danneggiata].
…Ero un membro del Consiglio per la Scienza e la Tecnologia del Ministero delle Costruzioni di media dimensione dell’URSS, ma non della Unità Reattori di tale consiglio. Pertanto, non conoscevo molti dettagli o discussioni specifiche. Il Consiglio sosteneva spesso discussioni in merito a problemi concettuali nello sviluppo dell’energia atomica, i quali molto raramente erano aspetti tecnici legati alla qualità dei reattori e del combustibile, oppure ai problemi esistenti. Questi aspetti erano discussi sia presso l’Unità Reattori che nei consigli dei vari dipartimenti.
Tuttavia, le informazioni che avevo mi avevano convinto che non tutto andasse bene nello sviluppo dell’energia nucleare, almeno così mi pareva. Era chiaro che i nostri apparati non fossero molto diversi da quelli occidentali, per lo meno nel design, sorpassandoli in alcuni aspetti. Purtroppo, erano dolorosamente carenti di buoni sistemi di controllo e estremamente carenti nei sistemi diagnostici.
Per esempio, appresi che Ramsomson, un americano, aveva analizzato la sicurezza delle centrali atomiche del suo paese. Egli verificava costantemente la presenza di possibili fonti di problemi che avrebbero potuto condurre a incidenti, li sistematicizzava, infine effettuava una valutazione probabilistica degli eventi, stimando così la possibilità di un evento che portasse al rilascio di radioattività. Scoprimmo la cosa da fonti straniere. Non vidi mai un singolo gruppo, in Unione Sovietica, che sollevasse e considerasse questi problemi con un qualsiasi livello di competenza.
Il difensore più agguerrito nell’ambito della sicurezza dell’energia nucleare nel nostro paese era Viktor Alekseyevich Sidorenko. Capii che il suo approccio al tema era serio, in quanto possedeva una genuina familiarità in merito a come funzionassero le centrali, sulla qualità delle dotazioni prodotte, sui problemi che saltuariamente si presentavano presso tali impianti. Comunque, il suo sforzo era principalmente orientato verso la gestione di tali situazioni: in primis, in senso organizzativo; secondariamente, tramite un sistema per potenziare la documentazione a disposizione della centrale e dei progettisti. Infine, era abbastanza concentrato nella creazione di organi di controllo e supervisione. Tutto ciò veniva inteso da lui come necessarie misure organizzative.
Lui e i suoi sottoposti mostravano grande preoccupazione per la qualità delle dotazioni fornite alle centrali. Anche tutti noi ci preoccupammo in merito alla qualità della formazione e della prontezza del personale che progettava, costruiva ed eserciva le centrali atomiche, in quanto malgrado il numero di strutture fosse stato nettamente incrementato, la qualità del personale coinvolto in questo processo era calata e continuava a farlo davanti ai nostri occhi.
Su queste preoccupazioni, voglio dirlo, Viktor Aleksandrovich Sidorenko era tra i più preoccupati. Non gli riusciva di ottenere appropriato supporto dal nostro ministro; così, ogni documento, ogni passo era dolorosamente difficile. Questo è psicologicamente comprensibile perché l’istituzione in cui tutti lavoravamo era costruita su princìpi che vedevano le persone più altamente qualificate operare ad alto livello di responsabilità. Difatti, nelle mani di persone qualificate che svolgevano bene il proprio lavoro, le dotazioni apparivano affidabili e sicure da usare.
In questa cerchia, le preoccupazioni in merito a misure addizionali per aumentare la sicurezza delle centrali atomiche sembravano però ingiustificate, proprio perché l’ambiente era composto da personale altamente qualificato il quale era abituato a essere affidabile; inoltre, erano convinti che i problemi di sicurezza fossero risolvibili unicamente tramite le competenze e istruendo con precisione il personale che presidiava il processo.
L’influenza militare nel nostro settore era molto presente, pertanto le attrezzature erano di alto livello. Tutto questo aveva un effetto rassicurante. Ciononostante, il lavoro scientifico volto a risolvere le questioni più importanti per un ulteriore miglioramento delle centrali, sia in termini di sicurezza che di efficienza, non usufruiva di tale supporto.
Crescenti risorse venivano spese nella creazione di impianti non direttamente connessi all’energia atomica. Questo potenziava i piani nazionali in merito alle capacità metallurgiche e di estrazione metallurgica. Un ampio numero di risorse veniva impiegato nella creazione di oggetti non direttamente correlati al dipartimento. Le organizzazioni scientifiche cominciarono così a indebolirsi, non a irrobustirsi. Lentamente, sebbene una volta potenti nel paese, esse cominciarono a perdere gli standard più moderni in fatto di equipaggiamento. Gli staff cominciarono ad invecchiare. Sempre meno giovani entravano. I nuovi approcci non erano i benvenuti. Gradualmente, impercettibilmente, tutto ciò accadeva inesorabilmente. Il ritmo abituale di lavoro persisteva e l’approccio tradizionale nella risoluzione dei problemi prevaleva.
Io testimoniai a tutto ciò, ma era difficile per me intervenire nel processo puramente professionale, dato che in genere mettersi di traverso veniva visto con ostilità – il tentativo da parte di un non professionista di portare un qualche tipo di intuizione nel proprio lavoro difficilmente sarebbe stato accettato.
Dato che il numero di componenti stava crescendo, nuovi edifici e nuovo personale erano richiesti per svolgere il lavoro. La crescita però non era qualitativa ma quantitativa. Inoltre, i nuovi specialisti riflettevano gli standard delle organizzazioni che li avevano formati. Spesso lavoravano esercitandosi. Un buon specialista di reattori avrebbe dovuto essere un soggetto specializzato nel design di un particolare reattore, che conoscesse tutti gli incidenti potenziali che accadono in una centrale, in grado di recarsi in qualsiasi struttura e assistere al suo avvio fisico ed energetico, o di capire rapidamente cosa stesse succedendo e riferire alla direzione dell’Istituto o al Ministero.
Fu così che nacque una generazione di ingegneri molto competenti, per nulla critici verso gli impianti stessi o verso i sistemi che avrebbero dovuto garantire la sicurezza; ciononostante, ne chiedevano un costante aumento di numero. Questa situazione non era normale per un ambito scientifico.
Da più di quindici anni si sentivano discussioni – sia a livello professionale che di partito – su come rafforzare il design delle organizzazioni con specialisti così così e approccio così così. In pratica, il design delle organizzazioni non veniva rafforzato, tranne per uno, rimanendo allo stesso livello abituale nello svolgere i compiti originariamente assegnati.
Il quadro complessivo era sostanzialmente questo: tutto era considerato sicuro, ciò che serviva era l’aumento dei presidi e delle persone che lavoravano con un dato algoritmo, e tutto sarebbe andato bene.
Il tarlo del dubbio mi corrodeva perché, nel mio settore professionale, sentivo che avrei dovuto fare le cose in modo diverso. Devi sempre fare qualcosa di nuovo, ed essere al contempo molto critico con ciò che è stato fatto prima di te. Cercare di smarcarti da quanto fatto prima. Il rischio va preso in questo mestiere, e io tendo a rischiare molto. Nella mia vita, non troppo corta né troppo lunga, ho coordinato dieci progetti, per così dire, su larga scala. Almeno cinque hanno fallito. Sono costato circa venticinque milioni di rubli in questi progetti, falliti perché sostanzialmente sbagliati. Erano coinvolgenti e interessanti. Ma saltò fuori che i materiali necessari non fossero disponibili, oppure che quelli scientifici non fossero adeguati allo scopo. Quindi, nessuna organizzazione si sarebbe presa in carico lo sviluppo di un compressione non convenzionale o, che ne so, di uno scambiatore di calore non convenzionale, sempre per la carenza di materiale necessario o di esperienza. Come risultato, determinati progetti, quando sviluppati, risultavano troppo costosi, ingombranti, e alla fine non approvati. Questo spiega perché cinque miei progetti su dieci divennero un fallimento.
Due di questi progetti, purtroppo, ebbero il medesimo destino, più o meno per le stesse ragioni. Tre progetti ottennero invece grande successo, laddove trovammo buoni partner e applicammo il massimo sforzo, utilizzando i massimi contatti all’interno del Governo nonché l’autorità di Anatoly Pavlovich e del Comitato Centrale del Partito. Un progetto solo dei tre di successo, costati 17 milioni di rubli ciascuno, iniziò a generare in introito di 114 milioni di rubli. Le corrispondenti industrie e tecnologie ci lavorano ormai da quattro anni. Ad oggi, tale progetto ha generato più di mezzo milione di rubli di introito per il Governo, che è ben di più dei 25 milioni di rubli spesi per i progetti fallimentari. Il grado di rischio dei miei progetti era comunque piuttosto alto. Certo: il 30, il 50 o il 70 percento di rischio e sempre, comunque alto. Ma una volta completato il lavoro, esso diventa sempre accettabile.
Nel campo dei reattori, la mia attenzione era rivolta a quelli ad alta temperatura raffreddati a Elio e ai reattori a sale fuso, in quanto non avevo mai visto nulla del genere. Mi sembravano nuovi, sebbene non del tutto, dato che erano già stati tentati dagli americani. I reattori raffreddati a gas erano stati tentati dai tedeschi. Tutti questi reattori avevano mostrato la loro considerevole superiorità, in termini di efficienza, di consumo di acqua per il raffreddamento nonché di ventaglio di potenziali utilizzi. Questo spiega perché fornii una specie di patronato in questi settori, almeno nell’ambito dei confini dell’autorità dell’Istituto. Inoltre, come parte del lavoro professionale, presi parte in prima persona in queste aree. L’ingegneria dei reattori tradizionali non mi interessava più di tanto, non mi era stata assegnata e sembrava piuttosto noiosa.
Ovviamente, a quel tempo non potevo immaginare il livello di pericolo, la sua scala, legata a questi vecchi impianti. C’era però un fastidioso senso di ansia. Tuttavia, erano coinvolti tali giganti, persone esperte che pensavo non avrebbero consentito qualcosa di spiacevole. Poiché la letteratura, la più precisa, era occidentale, confrontare i dispositivi occidentali con i nostri mi permise di concludere in vari libri e articoli: sebbene ci fossero molti problemi relativi alla sicurezza degli impianti esistenti, tuttavia fossero comunque inferiori ai pericoli dell’energia tradizionale, con le sue numerose sostanze cancerogene rilasciate nell’atmosfera, come la radioattività rilasciata nell’atmosfera dai giacimenti di carbone. Mi concentrai su questo.
Ero indubbiamente irritato per la situazione sviluppatasi tra il Ministero il fronte scientifico. Era sbagliata: dalle conversazioni, dai documenti, sapevo che la posizione originale era la seguente. Il nostro istituto non faceva parte del Ministero delle Costruzioni di media dimensione, ma gli stava al fianco come organizzazione separata e indipendente, e aveva il diritto di dettare i requisiti e le posizioni scientifiche. Il Ministero, dopo aver valutato le proposte scientifiche, era tecnicamente obbligato a eseguirle con precisione. Questa avrebbe dovuto essere la relazione. Le proposte scientifiche non avrebbero dovuto essere limitate dall’influenza di chi era al potere, così la totale opportunità di esecuzione di tali proposte, quando apprezzate dal Ministero: questo sarebbe stato il modo corretto di operare.
Piuttosto, col tempo, la scienza divenne subordinata al Ministero. I quadri ministeriali crebbero e acquisirono una propria, estesa esperienza ingegneristica. Intesero di aver capito tutto in ambito scientifico. Così, lo spirito e l’atmosfera scientifici nell’ingegneria di reattori gradualmente iniziò a sottomettersi al volere ingegneristico e, per così dire, al volere ministeriale. Assistetti a tutto ciò e la cosa mi infastidì. Questo complicò inoltre i miei rapporti col Ministero quando provai, senza grande cautela, a evidenziare il problema. Tra l’altro non avrei potuto vincere in questa disputa in quanto, agli occhi degli esperti di reattori dei Ministero, io ero un chimico, e questo li autorizzava a non ascoltare con attenzione le mie opinioni, le quali venivano trattate come una sorta di fantasie. Questo è il tipo di ambiente in cui tutto il lavoro veniva svolto.
I reattori RBMK nell’ambiente erano considerati pessimi reattori. Viktor Alekseyevich Sidorenko li aveva ripetutamente criticati. Ma questi reattori non erano considerati negativamente per una serie di punti a favore della sicurezza le quali, addirittura, li distinguevano. Semmai, erano considerati negativamente per una questione di costi. Innanzitutto per i consumi, elevati, di carburante, poi per gli elevati costi e l’approccio costruttivo non propriamente industrializzato. Inoltre, preoccupava in quanto si trattava di una linea di sviluppo sovietico totalmente isolata. La maggiore esperienza era infatti accumulata sui dispositivi chiusi acqua-acqua, o WWER. Esperienze operative, soluzioni tecniche adottate, software: tutto poteva essere adattato e scambiato. Per i reattori RBMK, invece, l’esperienza era puramente casalinga. Comparando le statistiche di operatività dei reattori RBMK, esse erano davvero minimali se paragonate agli impianti WWER. Tutto ciò era preoccupante.
Io, in quanto chimico, ero preoccupato in merito al largo potenziale delle reazioni chimiche all’interno di questi impianti. All’interno sono presenti grandi quantitativi di grafite, di zirconio e acqua. In presenza di condizioni normali, ovviamente, la grafite entra in contatto solo con materiali inerti in modo garantito da specifiche soluzioni tecniche. Una temperatura alla quale poteva iniziare una reazione vapore-zirconio, accompagnata da generazione di idrogeno, era, in linea di principio, inaccettabile, sia in termini di lavoro di routine che di condizioni tecniche. Nondimeno, la riserva di energia chimica potenziale in un impianto di questo tipo era massimamente relativa, per così dire, ad altri impianti comparabili. Anche questo era un punto di preoccupazione.
Guardando a questo tipo di impianti ero confuso, per esempio (e inusualmente direi, per mia opinione), dall’insufficienza dei sistemi di sicurezza che avrebbero potuto intervenire in presenza di situazioni estreme. Specie in merito alla sicurezza dell’impianto in caso di comportamenti anomali: per esempio, qualora gli effetti del coefficiente di vuoto positivo presente in questo tipo di impianti avessero iniziato a mostrarsi, l’operatore – e solo lui – avrebbe dovuto avere la possibilità di abbassare tutte le barre di controllo, oppure, avrebbero potuto essere abbassate automaticamente in presenza della segnalazione da parte di un qualche sensore. Manualmente, magari, utilizzando il pulsante speciale AZ-5. Questi impianti non presentavano barre meccaniche o altri sistemi di sicurezza indipendenti dalla volontà dell’operatore, pertanto si comportavano in modo meno sicuro, creando situazioni molto poco confortevoli. Tuttavia, erano state accumulate svariate linee guida. Gli specialisti avevano confidenza con tali aspetti.
La velocità con la quale i sistemi di sicurezza venivano introdotti, a quanto pare, era insufficiente. Spesso sentivo di specialisti, per esempio Aleksander Yakovlevich, discutere di questi problemi con Anatoly Petrovich Aleksandrov, proponendo modifiche ai progettisti dell’APS (il sistema di protezione dagli incidenti del rettore) al fine di migliorarlo, e tali modifiche non venivano rifiutate, anzi. Ma i sistemi di sicurezza venivano sviluppati molto lentamente. Inoltre, al tempo, le relazioni tra il direttore scientifico e il responsabile della progettazione divennero, per così dire, abbastanza tesi.
Per tutti i nuovi progetti e le nuove idee, i progettisti riconoscevano pienamente l’autorità dell’Istituto dell’Energia Atomica, il quale veniva prontamente consultato e col quale veniva mantenuto un contatto continuo. Ma nei riguardi di questo particolare reattore, l’RBMK, essi si consideravano creatori e proprietari assoluti. Non violavano l’ordine formale per il quale la leadership scientifica fosse a carico dell’Istituto per l’Energia Atomica, un ordine nei fatti di natura puramente nominale che veniva applicato solo in specifici casi, come in presenza di decisioni chiave come la realizzazione dell’RBMW 1500 o dell’installazione di uno scambiatore di calore nel reattore. Per esempio, quando fu necessario proporre l’incremento degli impianti RBMK, il supporto di Anatoly Petrovich Aleksandrov divenne fondamentale per indirizzare la questione. Queste casistiche venivano discusse sempre col direttore, ma nel merito di questioni specifiche tecniche o di migliorie al reattore RBMK, i progettisti erano riluttanti nell’accettare il punto di vista dell’Istituto, non considerandolo un partner sufficientemente sviluppato né utile allo sviluppo del lavoro.
Su questo contesto voglio esprimere un’opinione della quale sono pienamente convinto ma che, sfortunatamente, non è condivisa dai miei colleghi, causando frizioni tra noi, talvolta in modo drammatico. Il fatto è che, per quanto ne so, ed è logico, non esiste il concetto di un supervisore scientifico o di un capo progettista nelle industrie sviluppate in Occidente e nell’Unione Sovietica. Lo capisco io stesso; la gestione scientifica è un problema.
Ad esempio, un supervisore scientifico per l’aviazione. Anche se probabilmente non esiste, potrei facilmente immaginarlo. Quanti velivoli piccoli, quanti grandi; se dare la priorità al comfort durante l’imbarco o lo sbarco dei passeggeri o la velocità di viaggio tra due punti; se dare la preferenza allo sviluppo di aerei ipersonici o supersonici, garantisce un funzionamento confortevole e affidabile del personale di terra più importante per la sicurezza o il lavoro del personale a bordo dell’aeromobile; quale dovrebbe essere la percentuale di vari tipi di aeromobili. Una sorta di gestione scientifica in ambito aeronautico mi suonerebbe corretta.
Ma quando si tratta della progettazione di un particolare velivolo, esso deve avere come proprietari il progettista, l’ingegnere e il supervisore scientifico. Tutto il potere e tutte le responsabilità devono essere nelle stesse mani. Io lo vedo come un fatto ovvio.
Al tempo della nascita dell’Energia Atomica, tutto aveva senso, in quanto si trattava di un’intera nuova branca scientifica – fisica nucleare e dei neutroni. Il concetto di leadership scientifica si riduceva a un sistema in cui i principi di base della costruzione di un dispositivo venivano dettati dal progettista e il supervisore scientifico era responsabile che tali principi fossero fisicamente corretti e sicuri. Ma era il progettista a mettere in atto questi principi, in costante, quotidiana consultazione con i fisici sull’eventuale violazione di leggi fisiche del dispositivo.
Tutto ciò era giustificato dall’alba dell’industria nucleare. Ma dato che le organizzazioni erano cresciute e nel mentre avevano sviluppato i propri dipartimenti di fisica e matematica, era anche nato questo sistema di doppia proprietà dello stesso dispositivo: un supervisore scientifico e un progettista. Di fatto si tratta però di una triplice proprietà, perché c’è anche una sede, o qualche viceministro, che ha sempre l’ultima parola su una determinata decisione tecnica. Numerosi gruppi consiliari, interdipartimentali o dipartimentali, hanno creato un’atmosfera generale di corresponsabilità per la qualità complessiva del dispositivo. Questa è una situazione che permane tutt’oggi, ed è – a mio giudizio – sbagliata. Sono tutt’ora convinto che la supervisione scientifica, l’organizzazione che seleziona i progetti migliori – definendo così la strategia di sviluppo dell’energia nucleare – incarni questo vero ruolo, piuttosto che quello di sviluppare un determinato progetto. Tutta questa confusione ha portato alla grande irresponsabilità che è stata evidenziata dall’esperienza di Chernobyl.
In un modo o nell’altro, un sistema con responsabili sovrapposti non prevedeva che esistesse un singolo individuo responsabile per la qualità complessiva del progetto. Questo ovviamente ha causato un adeguato allarme tra i professionisti, sia in senso tecnico che ingegneristico. Mi è stato difficile giudicare pregi e demeriti di questo o quel progetto. Tuttavia, l’obiettivo che sono riuscito a ottenere è stato quello di creare un gruppo di esperti che provvedesse a un confronto esperto tra diversi tipi di dispositivi in termini di economia, universalità e sicurezza.
I primi due elaborati dagli esperti furono interessanti. L’idea di creare un tale gruppo di esperti e realizzare tale attività fu mia. Aiutai ad organizzare queste attività, mentre il lavoro effettivo fu svolto dal laboratorio di Aleksander Sergeyevich Kachanov, il quale venne creato appositamente. Egli, a mia opinione, organizzò il lavoro in modo perfetto. Questo perché il suo laboratorio era una sorta di entità che poneva domande formulandole in senso fisico, con risposte che venivano da specialisti e non solo da vari dipartimenti dell’Istituto, ma anche da quelli di altri. Come risultato, una base che poteva essere ampiamente discussa, criticata e integrata. Questo lavoro venne sventuratamente interrotto al suo inizio, dapprima per una seria malattia a carico di Aleksander Sergeyevich Kachanov e l’impossibilità di trovarne un sostituto, poi per gli eventi stessi legati a Chernobyl.
Il 26 aprile 1986 colse l’Istituto per l’Energia Atomica in una posizione scomoda. Con l’approvazione del direttore dell’Istituto, con il suo pieno sostegno, il suo vice stava lavorando all’organizzazione di ricerche a livello di sistema sulla struttura dell’Energia Nucleare, un’attività di scarso interesse per il Ministero e che si svolgeva esclusivamente grazie al sostegno di Anatoly Petrovich Aleksandrov. L’Istituto ne aveva ricevuto un’anteprima, quindi era già stato possibile giudicare la correttezza delle decisioni tecniche.
Contemporaneamente ero riuscito ad allestire un laboratorio per le misure di sicurezza che valutasse i vari pericoli dell’energia nucleare rispetto ad altri tipi di energia. Per la prima volta c’erano degli specialisti che prendevano… [registrazione danneggiata] …ben presto fu necessario lottare letteralmente per la corretta implementazione della tecnologia. Aleksander Petrovich e Vyacheslav Pavlovich Volkov, direttore della centrale nucleare di Kola e poi di Zaporozhye, mi hanno recentemente raccontato un episodio in cui un gruppo di suoi compagni ha visitato la stazione di Kola e ha assistito, a loro dire, a un completo disordine nell’organizzazione dei processi tecnici. Qualche esempio? Diciamo che un ufficiale di servizio inizi il turno, compili in anticipo tutti i registri di misura, tutti i parametri, anche prima della fine del turno, per poi fissare il soffitto fino alla fine dello stesso senza fare praticamente nulla. Forse solo l’ingegnere capo del controllo del reattore a volte lascia la sua sedia per svolgere alcune operazioni, ma a parte questo, è immobile e silenzioso. Nessun monitoraggio attento dello strumento, nessuna attenzione alle condizioni dell’attrezzatura tra la manutenzione preventiva pianificata.
Un compagno, arrivato per familiarizzare col lavoro della centrale di Chernobyl, riportò come tutto fosse sbagliato, lì. Il direttore della cengrale, Bryukhanov, ricevendo una chiamata da parte di Volkov, disse “di cosa ti preoccupi? Sì, un reattore atomico è come un samovar [ndr. un contenitore per riscaldare l’acqua usato nei paesi slavi e in Russia], molto più semplice di una classica stazione termica. Abbiamo personale esperto. Non succederà niente.” Volkov invece era molto cauto. Come mi disse più tardi, a tal proposito aveva chiamato Veretennikov del Ministero dell’Energia, poi Shasharin, arrivò fino a Neporozhniy per poi riferire tutto alla compagna Maryin al Comitato Centrale del Partito. Solo Neporozhniy rispose “vado a dare un’occhiata”. Andò, diede un’occhiata, allorché disse che tutto era in ordine e che l’informazione era sbagliata. Questo, non molto prima del disastro di Chernobyl.
Credo che dovremmo guardare anche al lavoro di altre industrie. Per esempio, io stesso visitai svariati impianti chimici. Rimasi particolarmente inorridito da un impianto di lavorazione del fosforo nella regione di Chemkent. Questo impianto era qualcosa di spaventoso, sia dalla prospettiva della qualità tecnologica e dalla saturazione di dispositivi diagnostici. Terribili le condizioni lavorative. Molti supervisori che avrebbero dovuto essere staffati erano semplicemente assenti. Un impianto pericoloso era essenzialmente stato lasciato senza controllo. Era spaventoso assistere a una situazione del genere.
Ecco perché capisco le parole del nostro Presidente del Consiglio in un contesto più ampio: non è una caratteristica dello sviluppo dell’Energia Nucleare a portare a quanto accaduto a Chernobyl, ma semmai una caratteristica dello sviluppo dell’economia nazionale stessa a farlo. Non ci volle molto per una conferma della correttezza della mia comprensione di queste parole. In pochi mesi accadde la collisione di Nahimov, un disastro così grave con la stessa disattenzione e irresponsabilità; poi un’esplosione di metano in una miniera di carbone in Ucraina; infine una collisione ferroviaria, sempre in Ucraina: tutto questo in breve tempo. Difficilmente questo rifletteva qualcosa di diverso da certa inefficienza tecnologica e indisciplina generale in quasi tutte le aree cruciali del nostro lavoro.
La situazione è davvero come quella della storia di Lev Nikolayevich Tolstoj: “Non ci sono colpevoli al mondo”. Quando si guarda alla catena degli eventi, perché qualcuno ha agito in questo modo e un altro in un altro e così via, è impossibile indicare un solo colpevole, un iniziatore di tutti gli eventi spiacevoli che hanno portato al delitto. Perché è una catena che si lega a se stessa. A Chernoby gli operatori commisero degli errori perché forzati a portare a termine un esperimento che consideravano una questione d’onore. Questo è ciò che li guidava e dirigeva le loro azioni. Il piano dell’esperimento era stato redatto molto male, in modo molto impreciso e non autorizzato dagli specialisti dai quali avrebbe dovuto essere autorizzato. Nella mia cassaforte c’è un registro delle conversazioni telefoniche tra gli operatori alla vigilia dell’incidente. Leggere queste trascrizioni fa rizzare i capelli. Un operatore ne chiama un altro e chiede: “Valera, qui nel programma c’è scritto quello che bisogna fare, ma poi molto è cancellato. Come mi comporto?” E il secondo risponde: “Fai ciò che è cancellato”. Te lo immagini? Questo è il livello di preparazione dei documenti per un impianto serio come una centrale nucleare. Quando qualcuno cancella qualcosa, l’operatore potrebbe interpretarlo come giusto o sbagliato e potrebbe eseguire azioni arbitrarie.
Ancora una volta: sarebbe sbagliato dare tutta la colpa all’operatore, perché qualcuno ha redatto il piano, qualcuno lo ha scarabocchiato, qualcuno lo ha firmato e qualcuno non lo ha coordinato. E il fatto stesso che la centrale possa eseguire autonomamente qualsiasi azione non autorizzata dagli esperti è già un difetto nel rapporto degli esperti e la centrale. Il fatto che i rappresentanti della supervisione dell’Energia Nucleare del Governo (GNES) fossero presenti alla centrale ma non fossero a conoscenza dell’esperimento in corso non è solo un fatto della biografia della centrale, ma anche un fatto della biografia dei dipendenti GNES e l’esistenza di questo sistema. Questi sono tutti i pensieri che vengono in mente in relazione all’incidente di Chernobyl.
Ma torniamo a quegli eventi da cui finora mi sono allontanato. Per quanto ricordo, ho interrotto la storia di come venni colpito dal puntuale lavoro del nostro KGB che, senza alcun clamore, con pochissime persone, lavorò molto per stabilire comunicazioni e mettere ordine nella zona dell’incidente. Buone parole possono essere rivolte al Ministero degli Affari Interni dell’Unione Sovietica e anche all’Ucraina, perché il processo di evacuazione, il rapido isolamento della zona e la rapida istituzione del regime e dell’ordine, per quanto possibile, vennero fatti molto bene, anche se va riferito di alcuni casi isolati di saccheggi o intrusioni nella zona con lo scopo di rubare. Il numero di tali tentativi fu comunque piccolo e vennero rapidamente soppressi.
L’aviazione, gli elicotteristi, lavorarono in modo molto preciso. Un grande esempio di organizzazione superiore a sfregio di ogni pericolo, lavorando con molta attenzione e precisione. Tutti gli equipaggi hanno sempre cercato di svolgere i compiti, non importa quanto difficile o complesso fosse il compito. I primi giorni furono particolarmente difficili. Fu emesso l’ordine di preparare i sacchi di sabbia. Per qualche ragione, le autorità locali non furono in grado di organizzare il numero sufficiente di persone per preparare i sacchi e la sabbia necessari, così che i piloti dell’elicottero potessero portare i sacchi in loco e lasciarli cadere.
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