Scrivere di Vajont è sempre difficile. Equivale ad avventurarsi in un foresta di emozioni complesse, dolorose, dove scivolare nella nella più banale retorica è tragicamente facile. Ne hanno scritto, propriamente e non, grandissime penne della realtà giornalistica italiana dell’epoca, cinquant’anni fa oggi, nell’incedere di un tempo infame che non cancella le cicatrici, non rimuove il dolore, non affievolisce l’onta di una tragedia annunciata, evitabile, tristemente italiana.
1910: non è un anno, ma il numero di persone spazzate via dall’effetto di “un fallout nucleare in una valle chiusa“, come riferisce Marco Paolini nella propria rappresentazione teatrale tributo alla tragedia. Non è un ordigno atomico ad esplodere, ma l’effetto è il medesimo: la notte del 9 ottobre 1963 uno tzunami montano di inimmaginabile dimensione e violenza distruttrice scaturisce dal crollo di un lato del monte Toc dentro l’invaso artificiale della diga della valle del Vajont, piomba sugli abitati sottostanti, spiana in pochi minuti quanto c’è da spianare, lascia alle sue spalle solo fango, distruzione, dolore, morte.
E’ un dovere civile, quello di ricordare questa vicenda immobile nel tempo, immobile come la diga, una paradossale e bellissima “v” di cemento a stagliarsi per 260 metri, bianca di muratura tra rocce nere, ripide ed aspre, impresa di ingegneria civile fattasi monumento ai caduti che la sua presenza ha causato. Suo malgrado, certo, ma non malgrado i protagonisti dell’epoca, uomini di grande pensiero e scienza, ma incapaci di capire quando il passo si fosse fatto più lungo della gamba, quando la mancanza di rispetto nei confronti della natura al solito, inevitabile scopo di un profitto economico, li avrebbe portati alla catastrofe. Quanto ferisce del comportamento scellerato di questi ingegneri, capitalisti, personaggi pubblici e pubblici enti, non è la sola violenza riservata alla natura, ma il deliberato misconoscimento dei molti segni premonitori, e soprattutto l’incapacità di rispettare i popoli autoctoni della valle, considerati contadini, ignoranti, indegni forse di far parte di quel rilancio post bellico che l’Italia richiedeva e che passava certamente anche dalla capacità di produrre in autonomia energia elettrica, una produzione che impianti come quello del Vajont avrebbero garantito. Dunque, al diavolo se qualche italiano “di seconda fascia” ne avrebbe pagato, forse, le conseguenze: era un sacrificio tollerabile, sulla strada della modernità, del rilancio dell’Italia del tempo, in fondo non così diversa da quella contemporanea.
La memoria collettiva di questo paese, lo sappiamo bene, è da sempre labile, veloce nel cancellarsi al pari della capacità di revisionare, di introdurre molti “ma”, “se” in storie drammaticamente conclamate, che dovrebbero invece esser ricordate per quel che sono, nella loro nitidezza, ed essere monito ed insegnamento per le generazioni a venire.
Per questo Vajont, come purtroppo altre storie del nostro passato prossimo, va raccontata, tramandata, mai revisionata, sempre protetta. Si dica a voce alta che l’uomo cercò profitto ma trovò solo morte; non si dimentichino quelle vite che avevano diritto a proseguire e furono invece spezzate per la sola incapacità nel dire “basta” in un sistema purtroppo ideale per scaricare le responsabilità su altri e proseguire nel proprio folle percorso. Oggi, dopo cinquant’anni, la valle è tornata alla vita, i paesi distrutti, riedificati; i popoli nuovamente insediatisi a dimostrare la tenacia della gente del Cadore, incapace di rassegnarsi ad abbandonare quel luogo che, in prima istanza, si voleva lasciare inabitato e piatto, come la battigia di una spiaggia spazzata dal moto ondoso del mare.
L’Italia tutta ricordi, si informi, capisca cosa fu Vajont, faccia tesoro di una tragedia rendendola così, forse, lievemente più tollerabile. Se si è ingegneri, costruttori, si approfondisca quel che accadde, si guardi all’etica del proprio mestiere e si tenga sempre quale stella polare del proprio agire. Se si è giornalisti, si segua l’esempio di Tina Merlin, l’unica a combattere aspramente il progetto portando come argomenti proprio quelli che si concretizzarono quella terribile notte di Ottobre, una combattente solitaria, una voce non asservita ad alcun sistema. Se si è popolo, non ci si abbandoni ai pregiudizi contrari alla modernizzazione di un paese come il nostro, ma certamente si resti vigili, si faccia della cultura dell’informazione un baluardo, una strenua difesa di fronte agli interessi di pochi contro quelli di molti.
Si può certamente essere italiani in un’ampia rosa di modalità diverse. Rafforzare la nostra memoria rispetto ai luoghi ed i fatti da cui veniamo può essere la via per esserlo finalmente in modo costruttivo, maturo, esemplare, soprattutto condiviso.
Un modo, in definitiva, per essere un po’ più “popolo”.
Ne abbiamo bisogno.