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I nastri di Legasov - NASTRO 1, LATO B

I nastri di Legasov – NASTRO 1, LATO B

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Il 2 maggio la Commissione Governativa si trovava ancora a Chernobyl. Nikolay Ivanovich Ryzhkov e Egor Kuzmich Ligachev arrivarono alla zona di esclusione e il loro arrivo ebbe un grande significato. Un giorno prima la Commissione Governativa aveva deciso di continuare l’evacuazione dall’area entro i 30 chilometri di raggio dalla centrale di Chernobyl. Tale decisione era basata sulla previsione della diffusione della radioattività e dall’analisi della situazione attuale alla vigilia del 2 maggio. Continua la lettura di I nastri di Legasov – NASTRO 1, LATO B

I nastri di Legasov - NASTRO 1, LATO A

I nastri di Legasov – NASTRO 1, LATO A

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“In tutta la mia vita non mi era mai passato per la mente di iniziare questo racconto, per lo meno non all’età in cui mi trovo attualmente, cinquant’anni da poco compiuti. Produrre le mie memorie, raccontare una parte tragica, confusa e incomprensibile.

Tuttavia, c’è stato un evento di una tale magnitudo, con un tale coinvolgimento di persone, di conflitti d’interesse, errori e vittorie, successi e fallimenti, da renderlo necessario. Ci sono così tante interpretazioni del perché sia accaduto ciò che è accaduto che è in qualche modo mio dovere dire ciò che so, come la vedo, la capisco, come ho testimoniato agli eventi occorsi.

Il 26 aprile 1986 era sabato, una bella giornata, e come sempre stavo decidendo se recarmi al dipartimento universitario a finire qualche lavoro, oppure se accantonare tutto e andare con mia moglie, Margarita Mikhailovna, e qualche amico a riposarci da qualche parte, oppure se recarmi all’incontro dei membri di partito prevista alle 10 presso il ministero che supervisiona il nostro Istituto Kurchatov di Energia Nucleare. Ovviamente, per natura e vecchie abitudini, chiamai un’auto e mi recai all’incontro di partito.

Prima dell’inizio dell’incontro, Nikolai Ivanovich Yermakov, il responsabile del sedicesimo ufficio del Ministero delle Costruzioni di media dimensione, sotto la quale supervisione la nostra Università si trovava, si avvicinò e ci comunicò con calma ma con disappunto che uno spiacevole incidente era accaduto presso la Centrale Atomica di Chernobyl.

Il rapporto del ministro Efim Pavlovich Slavsky fu piuttosto noioso, standard e banale. Eravamo già abituati a questo demagogo molto vecchio ma buono, il quale con una voce forte e fiduciosa narrò per un’ora quanto fossero validi i risultati prodotti dal Ministero. In base al suo rapporto tutte le metriche erano perfette: le migliori fattorie statali, le migliori imprese nonché l’elenco di tutti gli obiettivi raggiunti. Nel complesso, al pari di un discorso di vittoria.

Come al solito lodava il programma di energia atomica e i progressi compiuti; tra le sue lodi non mancò però di menzionare, bruscamente, che c’era stato un incidente a Chernobyl. La centrale era sotto la supervisione del nostro vicino Ministero dell’Energia. Bene: in modo piuttosto diretto spiegò che lì avevano in qualche modo incasinato qualcosa e che si era verificato un incidente, ma questo non avrebbe fermato lo sviluppo generale del programma di energia atomica. Questo fu seguito da un rapporto di routine continuato per due ore.

Intorno a mezzogiorno fu indetta una pausa e io salii al secondo piano presso l’ufficio del segretario delle scienze Nikolay Sergeevich Babay per discutere il rapporto. Subito dopo di me Aleksandr Grigorjevich Meshkov (primo vice ministro del Ministero delle Costruzioni di media dimensione) entrò nella stanza e brevemente ci informò che una Commissione Governativa era stata appena formata per investigare sull’incidente di Chernobyl e che io ero stato assegnato a tale commissione. Mi venne detto che i membri della commissione avrebbero dovuto raccogliersi presso l’aeroporto di Vnukovo alle ore 16. Lasciai subito il meeting, presi un’auto e mi recai in università per incontrare qualcuno del team reattori atomici.

Con grande difficoltà trovai il responsabile del dipartimento per lo sviluppo e il supporto delle centrali basate su reattori RBMK (lo stesso tipo di quello di Chernobyl), Alexander Konstantinovich Kulagin. Lui era già informato sul disastro: aveva infatti ricevuto un segnale d’allarme piuttosto brutto direttamente dalla centrale la notte precedente. Il segnale era codificato come da procedura; ad ogni deviazione del comportamento ordinario di una centrale, essa doveva informare il Ministero utilizzando un codice speciale. In questo caso, il codice ricevuto era “1-2-3-4”, il che significa la presenza di un incidente che coinvolga pericolo nucleare, il pericolo di radioattività, il pericolo d’incendio e di esplosione: in pratica, tutti i possibili tipi di pericolo.

Sembrava realmente il peggiore scenario possibile. Mi disse che, come concordato in precedenza, le squadre si stavano formando per rispondere ad ogni rischio e per recarsi sul posto o per coordinare da remoto e prendere il controllo del personale della centrale. Una squadra apposita si era formata nottetempo in circa tre-quattro ore ed era partita alla volta del sito. Comunque, mentre erano in viaggio arrivarono nuovi messaggi che sostenevano che il reattore (il quattro) fosse sufficientemente sotto controllo e che gli operatori avessero tentato di raffreddarlo, ma sfortunatamente due di loro erano morti. Uno di loro per infortunio sotto un crollo, mentre l’altro per bruciature termiche, ovvero a causa del fuoco. Nessuna informazione invece in merito a eventuali infortuni legati all’esposizione di radiazioni, e questo in qualche modo portò relativa calma.

Dopo aver raccolto tutta la necessaria documentazione e aver ricevuto il compagno Kalugin alcuni chiarimenti in merito alla struttura della centrale e i possibili problemi che avremmo potuto incontrare, feci un salto a casa. A quell’ora l’autista, come convenuto, aveva già riaccompagnato mia moglie da lavoro. Dovevamo incontrarci per risolvere alcune questioni familiari, le quali ovviamente rimasero irrisolte. Le dissi infatti che stavo partendo per lavoro, che la situazione non era particolarmente chiara e che non avessi idea di quanto mi sarei trattenuto lontano. Partii dunque alla volta di Vnukovo.

Una volta arrivato scoprii che il rappresentante designato per la Commissione Governativa era Boris Evdokimovich Shcherbina, vicepresidente del Consiglio dei Ministri e responsabile per i carburanti e l’energia. In quei giorni non si trovava a Mosca, ma in un’altra regione dove stava conducendo un incontro di partito; ora ci stava raggiungendo in volo e si sarebbe unito a noi per un nuovo volo che ci avrebbe condotto nel luogo dell’incidente.

La prima composizione approvata della Commissione Governativa, per quanto ne so e ricordo, non includeva Shcherbina, piuttosto il Ministro dell’Energia Mayoretz, il viceministro della salute Vorobiev Eugeny Ivanovich (il quale arrivò a Vnukovo appena prima Shcherbina da un’altra regione dell’Unione Sovietica) e l’impiegato di lungo corso, membro delle Accademie delle Scienze dell’URSS Viktor Alekseyevich Sidorenko. Inoltre, era parte di questa commissione il vicepresidente dell’Ufficio Governativo di Vigilanza sull’Energia Nucleare. Erano poi inclusi i compagni Soroka, viceprocuratore generale dell’URSS e Fyodor Alekseyevich Scherbak, il capo di una delle importanti divisioni del Comitato Governativo per la Sicurezza (ovvero il KGB). Infine, anche il vicepresidente del governo ucraino, che avrebbe dovuto essere già sul sito, il compagno Nikolayev e il capo del comitato esecutivo regionale, il compagno Ivan Plyusch. Questa era la composizione approssimativa della Commissione Governativa, che ricordo come quella iniziale.

Non appena Boris arrivò a Vnukovo, salì immediatamente sul nostro aereo e partimmo per Kiev. Durante il volo la nostra conversazione fu nervosa. Stavo cercando di spiegare a Boris l’incidente di Three Mile Island del 1979. Volevo dimostrargli che molto probabilmente non ci fossero correlazioni tra le cause di quell’incidente con quello di Chernobyl per via delle fondamentali differenze di costruzioni dei reattori. Questo ci tenne occupati per circa un’ora, la durata del volo.

A Kiev, una volta scesi dall’aereo, ciò che ci sorprese fu una lunga fila di auto governative nere e una folla di svariati dirigenti ucraini, i quali erano capitanati dal compagno Lyashko Aleksander Petrovich. Erano tutti preoccupati e non avevano informazioni abbastanza precise; comunque tutti convenivano che la situazione fosse veramente brutta. Non avremmo ottenuto informazioni precise, così salimmo sulle nostre auto prima possibile e partimmo alla volta della centrale. Io ero in macchina con il compagno Plyushch. La centrale si trovava a 140 chilometri da Kiev. Il viaggio fu di sera. Con così poche informazioni a disposizione, ci stavamo preparando a compiere un lavoro del tutto fuori dal comune. Alla luce di questo, la nostra conversazione fu abbastanza frammentata, inframezzata da lunghi silenzi. Tutti eravamo nervosi e ansiosi di arrivare il prima possibile per capire cosa fosse realmente successo e quale fosse la scala del disastro che ci trovavamo ad affrontare.

Ripensando oggi a quel viaggio, devo dire che non ebbi assolutamente idea che ci stessimo imbattendo in un evento di scala planetaria, il quale avrebbe ricordato eventi simili a grandi eruzioni vulcaniche del passato; Pompei, per esempio, o qualcosa di simile. Non potevamo saperlo: durante quel viaggio provavamo solo ad immaginare la scala dell’evento. Sarebbe stato facile o difficile? In altre parole, tutti i nostri pensieri erano orientati al lavoro che avremmo dovuto fare.

In poche ore arrivammo a Chernobyl. Malgrado la centrale si chiamasse “Centrale di Chernobyl”, essa si trovata a 18 chilometri dalla città che le dava il nome. Si trattava di una città molto verde, molto piacevole, come un tranquillo centro di campagna – o almeno quella fu l’impressione che avemmo passandoci dentro. Era tutto calmo e tranquillo, tutto era ordinario.

Prendemmo una strada che portava a Pripyat, la città dove vivevano costruttori e operai della vicina Centrale di Chernobyl. Parlerò della centrale in sé, la sua storia e la sua operatività più avanti, così da non interrompere l’ordine cronologico del mio racconto. In Pripyat avvertimmo la tensione nell’aria. Arrivammo al palazzo del comitato cittadino del partito che si affacciava sulla piazza principale. Accanto c’era un hotel, uno molto buono, dove le autorità ci incontrarono.

Mayorec era già lì; era arrivato persino prima della Commissione Governativa. Era presente, inoltre, un gruppo di specialisti arrivati dopo la primissima chiamata notturna. La prima sessione della Commissione Governativa venne organizzata seduta stante. Con nostra sorpresa – o almeno mia sorpresa – non ci vennero fornite informazioni precise né sulla centrale né sulla città. L’unico report preciso era relativo all’incidente, il quale aveva avuto luogo presso il quarto blocco mentre si stava concludendo un esperimento fuori standard sull’operatività dei turbo-generatori con la turbina in rotazione libera. Si erano verificate due distinte esplosioni e questo aveva causato la distruzione dell’edificio del reattore. Un numero considerevole di operatori era rimasto ferito. Il numero non era preciso, ma era chiaro che circa un centinaio di persone avessero subito danni da radiazioni. Due persone erano morte, altri erano in ospedale e le condizioni della centrale in termini di radioattività erano piuttosto complesse. Le condizioni di radioattività a Pripyat erano considerevolmente peggiori del normale, ma al momento non ponevano in significativo rischio gli abitanti.

La Commissione Governativa era condotta con grande vigore, come era solito fare, da Boris Evdokimovich Shcherbina. Organizzammo velocemente i membri in diversi gruppi, ognuno con un compito specifico.

Il primo gruppo, condotto da Alexander Grigoryevich Meshkov, doveva avviare le investigazioni in merito alle cause del disastro. Il secondo gruppo, con a capo il compagno Abagyan, doveva organizzare la raccolta delle misurazioni tramite dosimetri intorno alla stazione, a Pripyat nonché nelle zone circostanti, con il gruppo della Protezione Civile regionale a gestire il resto. Giunti a questo punto il Generale Ivanov era arrivato; avrebbe condotto questi gruppi di Protezione Civile, organizzato le misure preparatorie per una possibile evacuazione dei civili e avviato le prime attività di decontaminazione. Il Generale Berdov, a capo del Ministero degli Affari Interni della Repubblica Ucraina, doveva definire i requisiti secondo i quali le persone potessero restare o meno all’interno delle aree contaminate. Per quanto mi riguarda, fui messo alla testa del gruppo che doveva sviluppare le misure per il contenimento dell’incidente. Il gruppo guidato da Evgeny Ivanovich Vorobiev fu incaricato di gestire tutti i problemi medici.

Avvicinandoci a Pripyat, a circa 8-10 chilometri, fui colpito da una visione in cielo. Era come un color gelso, o forse cremisi, che brillava sopra la stazione, qualcosa di assolutamente inappropriato a una centrale atomica. È noto come queste centrali siano molto pulite e accurate, e tutti i loro impianti e tubature non rilascino nulla di visibile nell’aria. Inoltre, per uno specialista una centrale atomica solitamente non produce alcun gas. Si tratta di una caratteristica distintiva, fatta esclusione per alcuni impianti specifici. Ma in questo caso appariva come una fabbrica metallurgica, o un gigantesco impianto chimico con un enorme bagliore cremisi su metà del cielo visibile sopra di esso. Questo fu molto inquietante, rendendo la situazione molto insolita.

Immediatamente divenne evidente come i responsabili della centrale e quelli del Ministero dell’Energia fossero confusi. Da un lato, buona parte dello staff e dei responsabili agirono molto coraggiosamente e si resero pronti per qualsiasi azione. Per esempio, gli operatori del primo e del secondo blocco non lasciarono le loro postazioni. Stessa cosa per quelli del terzo blocco, il quale condivideva lo stabile con il quarto. Vari servizi della stazione erano ancora in piena operatività. In pratica era possibile trovare persone per inviare comandi o incarichi. Ma quali comandi e incarichi potevano essere inviati prima dell’arrivo della Commissione Governativa?

Essa arrivò alle 20:20 del 26 aprile. Non c’era alcun piano preciso e sensato. La Commissione dovette realizzarlo interamente. Innanzitutto, venne dato l’ordine immediato di spegnere il terzo blocco. Il primo e il secondo continuarono a lavorare nonostante i rispettivi locali presentassero alti livelli di contaminazione, intorno a dieci, in alcuni casi centinaia di milliroentgens per ora. La contaminazione interna si verificò a causa della ventilazione interna. Non era stata spenta per tempo e aveva condotto aria contaminata all’interno, dove il personale continuava a lavorare.

Così la prima squadra che entrò in quei locali iniziò immediatamente la procedura di spegnimento controllato dei reattori 1 e 2. Questo venne fatto su iniziativa di Alexander Egorovich Meshkov, il quale impartì l’ordine, non dai responsabili della centrale o dal Ministro dell’Energia. L’esecuzione del comando venne effettuata immediatamente.

Boris Shcherbina aveva chiamato da subito l’NBC – le truppe dell’Esercito dedicate ai contenimenti chimici – le quali arrivarono molto velocemente capitanate dal Generale Pikalov. In arrivo c’era anche la divisione elicotteristi. Si trovavano di stanza a Chernigov; a capo di quella forza aerea c’era il Generale Antoshkin. Avrebbero da subito iniziato i sorvoli sopra il blocco 4 per valutare la situazione.

A primo acchito fu chiaro come l’intero reattore fosse stato distrutto.

Il coperchio principale, il quale rendeva ermetico il reattore, chiamato “Yelena”, era quasi in posizione verticale, solo leggermente angolato. In altre parole, era chiaro che fosse stato spazzato via, il che prevedeva una forza immensa dato l’enorme peso. Inoltre, la parte superiore della sala reattore era completamente distrutta. Sul tetto del locale motori e tutto intorno era disseminato di pezzi di grafite. Alcune grosse barre che emettevano calore erano chiaramente visibili. Grazie alla mia esperienza proveniente da altri luoghi di lavoro, compresi velocemente la causa del danno, ovvero un’esplosione di forza pari a tre o quattro tonnellate di TNT.

Il cratere del reattore emetteva costantemente una colonna bianca di fumo, composta probabilmente da prodotti della combustione della grafite. Al suo interno era possibile individuare alcuni riflessi luminosi molto intensi rosso cremisi. Comunque era difficile dire precisamente cosa fossero. Avrebbero potuto essere blocchi di grafite rimasti in posizione. La grafite brucia uniformemente, generando prodotti di combustione biancastri, come in una normale reazione chimica. Forse i riflessi erano dati dalla riflessione nell’aria della luce della combustione, tanto era potente.

I livelli di radiazione vennero rapidamente misurati su diversi piani orizzontali e verticali intorno al reattore. Come osservammo, molte radiazioni fuoriuscivano dal quarto blocco, ma ciò su cui eravamo particolarmente preoccupati era il fatto che il reattore potesse ancora essere in funzione, ovvero che stesse ancora generando isotopi radioattivi dall’emivita media. Dato che quell’informazione ci serviva urgentemente, venne effettuato un primo tentativo per misurare gamma e il campo di neutroni; un blindato militare APC di proprietà dell’NBC venne inviato allo scopo. La prima misurazione mostrò che eravamo in presenza di una forte sorgente di radiazione neutronica, il che poteva indicare che il reattore fosse effettivamente ancora in funzione.

Per esserne sicuri, dovetti entrare nell’APC e recarmi nelle vicinanze del reattore. Sembrava che all’interno di quei potenti campi di radiazione gamma, il canale dei neutroni del dispositivo di misurazione non funzionasse, come se la misurazione uscisse dall’intervallo di rilevazione dello strumento. Questo spiega perché le informazioni più precise in merito allo stato del reattore vennero dedotte dal rapporto tra gli isotopi di breve durata e di lunga durata di iodio 134 e 131 rilevati. Quindi, effettuando rapidamente delle misurazioni radiochimiche, stabilimmo come non venissero prodotti isotopi di iodio di breve durata e di conseguenza il reattore non fosse operativo bensì in stato subcritico.

Nei giorni seguenti molteplici analisi sui gas svelarono che nessun isotopo a breve emivita veniva emesso. Questa fu per noi la prova principale che dimostrava che il combustibile nucleare, dopo l’esplosione, era in stato subcritico. Dopo aver effettuato queste prime valutazioni sull’attività del reattore, nuovi problemi cominciarono a preoccuparci particolarmente. In primis, il destino della popolazione e il numero di operatori della centrale che sarebbero dovuti rimanere in servizio, malgrado la situazione, per continuare le operazioni. In secondo luogo, prevedere il possibile comportamento della massa di combustibile nucleare, i possibili scenari di esito e come reagire ad essi.

Per la sera del 26 avevamo valutato tutte le zone coinvolte dall’intervento dei pompieri, intervento che si rivelò efficace e molto professionale, limitando l’indondazione dei blocchi adiacenti al blocco quattro. Si disse che molti pompieri avessero subito un inutile, alto dosaggio di radiazioni, dato che avevano presidiato alcuni punti verificando che non partissero altri incendi. Si dice che sia stata una decisione scarsa, insensata. Non è così. Il locale motori era pieno di olii combustibili, di idrogeno all’interno dei generatori e altre fonti che non solo avrebbero potuto dar origine a un incendio, ma che avrebbero potuto originare un’altra esplosione che avrebbe potuto devastare anche il blocco tre. Per questo motivo le loro azioni non solo furono eroiche, ma anche molto professionali, preparate e corrette, in quanto volte a localizzare e contenere l’incidente.

Il punto successivo si pose nel momento in cui divenne chiaro che il cratere del reattore stesse eruttando molta radioattività sotto forma di aerosol gassoso. Era chiaro che esso fosse generato dalla combustione della grafite e che ogni sua particella contenesse una grande quantità di radioattività. Avevamo quindi un nuovo, difficoltoso incarico: dato che la grafite brucia a un ritmo di una tonnellata all’ora e dato che nel reattore ve ne erano 240 tonnellate, la durata dell’incendio sarebbe stata di 240 ore, continuando a emettere materiale radioattivo assieme al fumo. Questa quantità di materiale avrebbe potuto contaminare un’immensa porzione di territorio.

La temperatura all’interno delle rovine del reattore era circa quella della grafite che brucia, ovvero 1500 gradi circa, o qualcosa di più. Sarebbe quindi intervenuta una specie di equilibrio. Gli elementi di ossido di uranio si sarebbero sciolti, interrompendo la produzione di ulteriori particelle radioattive, ma comunque il fumo ne avrebbe trasportate con sé una quantità tale da contaminare pesantemente una superficie considerevole di territorio. Le condizioni di radioattività consentivano di effettuare ogni sorta di azione solo dal cielo, e solo da una quota di almeno 200 metri sopra il reattore, il che significava che non avevamo alcuna possibilità di spegnere la grafite con i metodi tradizionali, ovvero con acqua o schiuma.

Dovemmo così sviluppare dei metodi non convenzionali per risolvere il problema. Il nostro “brainstorming” fu condotto in costante confronto con Mosca, dove qualcuno era perennemente al telefono, per esempio Anatoly Petrovich Alexandrov. Numerosi altri scienziati dall’Istituto per l’Energia Atomica e dal Ministero dell’Energia presero attivamente parte alle discussioni. Ogni servizio, per esempio i Vigili del Fuoco dal canto loro, erano in costante contatto con le varie organizzazioni di Mosca. Dal secondo giorno iniziammo a ricevere consigli, come per esempio quello di utilizzare vare soluzioni liquide.

I ragionamenti alla base delle nostre decisioni sono quelli che seguono. Innanzitutto, dovevamo scaricare grandi quantità di sostanze che contenessero boro, così che qualsiasi cosa succedesse al combustibile nucleare ci fossero sufficienti assorbitori di neutroni. Il secondo compito era quello di scaricare materiali che stabilizzassero la temperatura. Questo sarebbe stato ottenuto forzando l’energia prodotta dal decadimento del combustibile nucleare a convertirsi grazie alla transizione di fase della materia (per esempio la fusione). La prima idea che ebbi in merito fu quella di scaricare nel reattore del ferro. La centrale ne disponeva in quantità – veniva usata per le costruzioni per irrobustire il calcestruzzo. Purtroppo, il magazzino che lo conteneva era stato esposto alla prima nuvola emessa dall’esplosione, pertanto era contaminato e non era possibile utilizzarlo in sicurezza. Inoltre, non conoscevamo con esattezza la temperatura esatta all’interno del reattore: se fosse stata inferiore al punto di fusione del ferro, quell’iniziativa sarebbe stata insufficiente.

Così, dopo molte consultazioni e discussioni, scegliemmo due materiali ideali per la stabilizzazione della temperatura: piombo e dolomite. Il primo fu scelto principalmente perché fonde a temperature relativamente basse, perché ha alcune capacità di estrazione di componenti radioattivi e, infine, perché, una volta solidificato, avrebbe formato un valido scudo contro le radiazioni. Eravamo comunque preoccupati che se la temperatura avesse superato i 1600-1700 gradi centigradi, il piombo avrebbe potuto evaporare, andandosi a sommare alle altre sostanze radioattive emesse dalla combustione, oltre a rivelarsi una misura inefficace.

A causa di queste preoccupazioni, ebbi a disposizione un gruppo di scienziati di Doneck dal Ministero dell’Energia ucraino. Avevano a disposizione degli strumenti svedesi, delle termocamere, tramite le quali misuravano con voli ravvicinati sopra il reattore la temperatura superficiale dell’incendio. Si trattava di un compito particolarmente difficile, dato che i semiconduttori utilizzati in queste termocamere erano pesantemente influenzate dalle radiazioni gamma, condizionando così i risultati. Per questo motivo suggerii di utilizzare delle misurazioni della temperatura tramite termocoppia che avrebbero potuto essere effettuate dal suolo.

Questo compito fu espletato da Eugeny Petrovich Razantzev con l’aiuto di elicotteristi, i quali usarono delle lunghe aste per posizionare le termocoppie. Un compito molto gravoso per misurare la temperatura di tale superficie. Alla fine, dato che la grafite stava ancora bruciando, chiesi di raccogliere in diversi punti dei campioni di atmosfera, così da inviarli a Kiev per analizzare CO2 e CO e il loro rapporto. Avrei così potuto valutare in modo approssimativo la temperatura all’interno del blocco quattro.

Analizzando questo intero set di dati raccolti come descritto, concludemmo che all’interno del reattore ci fossero delle piccole aree alla temperatura di 2000 gradi centigradi, mentre la superficie si collocava intorno ai 300 gradi. In quest’ottica, l’uso del Piombo risultava essere una misura efficace. Dopo tutti questi studi vennero lanciare oltre 2400 tonnellate di Piombo, con grande precisione e accuratezza, dagli elicotteri.

La quantità di piombo utilizzata cresceva giorno dopo giorno. Ero sconvolto dalla velocità e dalla scala con la quale i materiali necessari venivano consegnati allo scopo. Tenendo però in considerazione i limitati punti dove la temperatura era molto alta, decidemmo di utilizzare del carbonato, della dolomite per l’esattezza, con gli stessi obiettivi del piombo, al fine di stabilizzare la temperatura sfruttando l’alto assorbimento offerto dal decadimento dei componenti della dolomite. Uno di questi componenti, il magnesio, un ossido con una conduttività termica relativamente buona e, come il piombo, in grado di ampliare l’area di radiazione termica, trasferendo il calore a tutti gli altri elementi presenti in metallo. Ma non è un metallo. L’ossido riduce la concentrazione di ossigeno nelle vicinanze dell’incendio, contribuendo ad estinguerlo. In base a tutto ciò si spiega il loro scarico massivo sul cratere del reattore distrutto.

Anatoly Petrovich Alexandrov si raccomandò fortemente di iniziare a scaricare argilla. Si tratta di un buon assorbente di radionuclidi. L’argilla e la sabbia furono così scaricate in grosse quantità allo scopo di creare uno strato di filtraggio in grado di trattenere almeno parte dei componenti radioattivi qualora le cellule del biossido di uranio avessero iniziato a sciogliersi.

È chiaro come scaricare qualsiasi cosa da un’altezza di 200 metri creasse una situazione complessa intorno al quarto blocco. Quando qualcosa dal peso di 200 chili cade da un’altezza di 200 metri solleva polvere, polvere la quale porta con sé della radioattività; queste particelle però si aggregavano in aria cadendo al suolo tutto intorno alla centrale. Questa nuvola di polvere rappresentava anche una specie di protezione contro le particelle che avrebbero potuto essere altrimenti trasportate lontano per lunghe distanze.

In base al flusso in uscita dal quarto blocco, la sua quantità e le dinamiche, le nostre azioni furono abbastanza efficaci e la considerevole quantità di radioattività si localizzò e non si sparse per grandi distanze, eccezion fatta per il cesio e lo stronzio – gli elementi che più facilmente si erano fusi e poi vaporizzati.

In questo modo, la somma di tutte le nostre azioni consentì di sigillare il quarto blocco e creare uno strato di materiali filtranti, nonché di prevenire la fusione del carburante nucleare interrompendo molte delle reazioni endotermiche. Tutto ciò ridusse considerevolmente l’area di contaminazione radioattiva dal quarto blocco e dalla centrale verso altre aree.

Quelli furono i nostri tentativi di contigentamento. Le decisioni furono prese il 26 aprile, portandole poi avanti fino al 2 maggio incluso. Questo fu il periodo principale in cui scaricammo materiali all’interno del reattore. Successivamente al 2 maggio, interrompemmo i lanci e introducemmo una pausa. Quindi, intorno al 9 maggio, riprendemmo quando fu notata un’area rovente all’interno del reattore. Poteva essere sia grafite o qualche costruzione metallica che aveva raggiunto temperature ragguardevoli. Scaricammo altre 80 tonnellate di piombo e quello fu l’ultimo scarico massivo.

Al di là dell’uso dei materiali precedentemente menzionati per la stabilizzazione della temperatura o per la creazione di uno strato di filtraggio, avviammo un’operazione di soppressione delle polveri. Questo venne proposto da Boris Veneaminovich Gidaspov, un membro dell’Accademia delle Scienze, giunto in aiuto agli scienziati al lavoro qui, intorno al 10 maggio. Buste di plastica venivano riempite di soluzioni speciali e scaricate nel reattore. Queste sarebbero scoppiate e avrebbero ricoperto un’area significativa; la soluzione si sarebbe poi polimerizzata e solidificata. La stessa cosa sarebbe stata fatta inoltre sopra ogni superficie che avrebbe potuto creare polvere. Tutte queste misure vennero, lo ripeto, pianificate nella serata del 26 aprile. Continuarono fino al 12-15 di maggio con in lanci e terminarono, come detto, il 2 maggio.

Ovviamente, continuavamo a raccogliere campioni atmosferici tramite filtri per misurare la radioattività emessa e per comprenderne le dinamiche. La prima nube portava con sé 1000 curie di radioattività al giorno, la seconda volta che andai via da Chernobyl era di 100 curie in discesa. Chiaramente c’erano molte discussioni in merito alla precisione e alla correttezza delle misure e dei calcoli effettuati. Come risultato, persino le misure elementari non erano garantite ad ogni rilevazione. Comunque, parlerò di questo più avanti.

In precedenza ho descritto il lavoro per circoscrivere l’incidente, ma una decisione molto più importante, presa il 26 aprile, fu quella sul destino della popolazione. Immediatamente dopo aver deciso come raffreddare il reattore del quarto blocco iniziò la discussione su Pripyat. La sera del 26 i livelli di radiazione erano entro limiti accettabili. Da un milliroentgen per ora a un massimo di dieci per ora non era di certo salutare, ma era accettabile.

Da un lato avevamo ripetute misurazioni radiologiche e dall’altro medici che insistevano che l’ordine di evacuazione fosse dato quando le persone avessero rischiato di assorbire individualmente fino a 25 roetgens. L’ordine sarebbe stato invece automatico quando l’assorbimento fosse arrivato a 75 roetgens, ma nell’intervallo 25-75 roetgens la decisione era in mano alle autorità locali. In queste condizioni cominciammo a discuterne.

Devo dire che tutti i fisici, specialmente Viktor Alekseevich Sidorenko, percepirono che le condizioni sarebbero peggiorate e insistettero per una evacuazione obbligatoria. Tutti i medici supportarono questa posizione. Intorno alle undici del mattino del 26 aprile Boris Shcherbina, dopo aver preso in considerazione tutte le raccomandazioni, decise per l’evacuazione obbligatoria. Successivamente i rappresentati Ukraini, i compagni Plyusch e Nikolaev, iniziarono la preparazione dell’evacuazione, prevista per il giorno successivo.

Questa non fu un’operazione facile. Servivano trasporti, i quali vennero convocati da Kiev. Le strade carrabili dovevano essere battute per pianificare i tragitti dell’evacuazione. Il generale Berdov gestì questo incarico e organizzò le comunicazioni al pubblico in modo che non uscissero dalle loro abitazioni. Sfortunatamente questo significava che le informazioni venissero riferite solo verbalmente – veniva battuta ogni singola casa, lasciando al più degli avvisi. Sembrava che non tutti fossero pienamente informati, perché alcune madri con i figli furono avvistate per strada anche nella mattinata del 27 aprile.

Alle undici del mattino fummo ufficialmente informati che l’intera città sarebbe stata evacuata alle due del pomeriggio. Tutti i trasporti furono raggruppati, tutti i tragitti identificati e intorno alle 2-2.30 del pomeriggio l’intera città era svuotata. Esclusi, ovviamente, gli operai della centrale e alcuni lavoratori necessari ai servizi pubblici essenziali.

Il personale della stazione fu trasferito al campo scuola “Skazochniy”, a circa 10 km da Pripyat. L’evacuazione fu veloce e precisa, nonostante le condizioni inusuali. Comunque, ci furono alcuni problemi. Per esempio, un gruppo di cittadini chiese alla Commissione Governativa di poter utilizzare i propri mezzi. Dopo alcuni confronti, la Commissione acconsentì. Forse si trattò di una decisione sbagliata, in quanto alcune di quelle auto erano contaminate, e i checkpoint di rilevazione dosimetrica non erano ancora stati organizzati per controllare il grado di contaminazione di tali veicoli.

In questo modo, molti oggetti personali portati con sé dalle persone furono veicolo di contaminazione. Comunque sia, le persone non portarono con sé molto materiale, in quanto speravano che l’evacuazione fosse solo temporanea. Ma ripeto che l’evacuazione venne effettuata quando i livelli di radioattività a Pripyat non erano così alti, così come il livello di contaminazione degli oggetti e delle persone stesse. Appariva chiaro come nessuno dei quasi 50.000 civili di Pripyat che non si trovavano presso la centrale al momento dell’incidente non subirono un importante quantità di radiazioni.

La protezione delle persone fu la seconda linea di difesa. Successivamente vennero effettuate misurazioni dosimetriche sempre più approfondite della situazione. La composizione degli isotopi fu analizzata con maggior dettaglio. Questo venne fatto dai servizi della Commissione Idrometrica Governativa e da quelli del Generale Pikalov, così come da quelli della centrale stessa. Devo dire che tutti fecero un gran lavoro, ma comunque le informazioni più precise giunsero dal laboratorio di analisi radiologiche realizzato sul posto, comandato dal compagno Petrov, il quale era giunto sul posto sin dall’inizio. L’Istituto Dollezhal di Ricerca e di Sviluppo dell’Ingegneria Energetica (NIKET), comandato dal compagno Egorov, contribuì con i dati più precisi sulla composizione degli isotopi e sulla diffusione della radioattività. Basandoci sui loro dati, noi prendevamo le nostre decisioni. Fu chiaro come nei primi giorni, a causa delle masse d’aria che si levavano dal sito e a causa del lancio dei materiali all’interno del reattore, che la contaminazione fosse veicolata dalla polvere.

Qualche parola sulle condizioni nelle quali lavorò la Commissione Governativa. Giusto alcune prime impressioni. Innanzitutto, e principalmente, voglio dire che selezionare Boris Eudokimovich Shcherbina a capo della Commissione fu un’ottima scelta. Questo perché aveva la buona abitudine di ascoltare con attenzione gli specialisti, andando direttamente al punto, rendendosi subito reattivo nel prendere decisioni. Non era mai timido o pigro nel farlo. La cosa fu immediatamente chiara in una situazione così eccezionale.

Citerò solo un esempio del suo lavoro. Seguendo i complessi calcoli in merito al piombo, Alexandrov per esempio non riusciva a capire a lungo il mio ragionamento: il perché il piombo fosse necessario, intendo. Provai a spiegargli che non c’era possibilità di scaricare ferro per i ragionamenti menzionati in precedenza. Aspettare che arrivasse avrebbe voluto dire di affrontare la stabilizzazione di una temperatura a un livello molto più alto quando invece volevamo farlo a un livello più basso. In base alle mie stime, 200 tonnellate di piombo andavano ordinate ma dissi immediatamente a Boris Eudokimovich che 200 non avrebbero comunque risolto i problemi. Avremmo avuto bisogno di 2000 tonnellate di Piombo da scaricare nel cratere del reattore. Lui ascoltò molto attentamente (io pensavo che sarebbe stato difficile per il paese fornire così tanto materiale in pochi giorni), ma scoprii più tardi che ne aveva ordinate ben 6000, perché avrei potuto aver sbagliato i calcoli e sarebbe stato meglio avere un surplus di piombo invece che averne poco. E questo è solo un esempio.

Anche il personale della centrale fu sorprendente a suo modo, sebbene lasciò impressioni molto contrastanti. Ho già accennato a questa cosa. Incontrammo gente pronta a eseguire qualsiasi compito in qualsiasi circostanza. Più tardi, in documentari e in memorie, lessi che parte del personale era fuggito. Ma la situazione era complessa. Specialmente dopo l’evacuazione, molte persone non sapevano dove fossero i figli, le madri, perché la popolazione era stata evacuata in tutte le direzioni. Alcuni erano rimasti nei villaggi presso i quali erano stati evacuati, altri avevano ottenuto dei biglietti e avevano raggiunto i propri familiari. Erano sparpagliati e questo complicava tutto. Tuttavia, praticamente tutti i lavoratori della centrale, dagli operai al personale ministeriale, furono pronti a compiere le azioni più estreme e coraggiose. Ma quali dovevano essere queste azioni? Che dovevano fare in una situazione del genere? Come doveva essere organizzato e pianificato il lavoro? Da questa prospettiva non c’era comprensione dei passi operativi che andavano effettuati, né dal personale della centrale né da quello del Ministero dell’Energia. Così io e la Commissione Governativa dovevamo prendere queste decisioni, decidere un piano d’azione, ottenere una chiara comprensione della situazione stessa.

La confusione regnava anche nelle piccolezze. Ricordo il tempo in cui la Commissione Governativa si trovava ancora in Pripyat, non avendo sufficienti respiratori, dosimetri personali (chiamati TLD), e persino qualche sorta di dosimetri portatili al fine di rilevare minime misurazioni. Non c’erano abbastanza di questi dispositivi per ciascuno coinvolto in queste attività. Inoltre, molti di quelli disponibili o non erano carichi, oppure il personale non era istruito su come usarli o come ricaricarli. Era tutto abbastanza inatteso.

Potevamo solo biasimarci per non aver dosimetri automatici installati esternamente intorno alle centrale, i quali avrebbero potuto registrare le sulle condizioni di radioattività all’interno di un raggio di 1, 2, 4 e 10 chilometri. Così dovemmo inviare molte diverse persone per gestire la situazione. Non c’erano aereomezzi radio-controllati dotati di dosimetro, così dovemmo inviare un considerevole numero di elicotteri per prendere misurazioni e investigare. È chiaro quanto un essere umano sia insostituibile quando bisogna effettuare compiti complessi come scaricare precisamente dei carichi pesanti o altre operazioni come il posizionamento di grossi mezzi tramite elicotteri. Ma alcuni semplici, ripetitivi incarichi avrebbero potuto essere espletati tramite piccoli aereomezzi radio-controllati senza equipaggio. Ma questo tipo di strumenti non era disponibile, al tempo.

C’erano poi problemi di ordine pratico. Durante i primi giorni a Pripyat il cibo veniva trasportato: cetrioli, pomodori, salsicce, Pepsi-Cola, limonate. Tutto ciò veniva consegnato in stanze relativamente sporche, ed era preparato nei medesimi posti e a mani nude. Così, persino le più elementari pratiche d’igiene vennero a mancare durante i primi giorni. Più tardi, dopo qualche giorno, con il perfezionarsi della sistemazione vennero attrezzate delle vere tende-cucina e dei presidi sanitari propriamente detti. Molto elementari, ma abilitati a mantenere mani (e anche piedi) delle persone al sicuro dalle contaminazioni radioattive.

Durante i giorni iniziali tutto questo non era organizzato e la cosa fu choccante – e questi erano solo alcuni dei problemi più piccoli. La Commissione Governativa lavorò da Pripyat durante i primissimi giorni. Il quartier generale si trovava presso la sede della commissione di partito locale. Se avessimo potuto, avremmo dormito in un hotel nelle vicinanze. Dopo che l’evacuazione fu completata, la Commissione rimase ancora a Pripyat per un paio di giorni, ma successivamente si trasferì nell’edificio del Comitato Regionale del Partito a Chernobyl e in un campo militare. Poco dopo furono organizzati dei cosiddetti quartieri di lavoro. Gli alloggi abitativi, tuttavia, furono collocati nella città di Ivankov, a 50 km da Chernobyl. Fu chiaro che durante tali spostamenti non era stato preparato un centro di comando dal quale sarebbe stato possibile organizzare il lavoro in condizioni così difficili. Tutto ciò doveva essere ideato e organizzato sul posto, che avesse successo o meno.

Durante il secondo o il terzo giorno, credo, suggerii di organizzare un gruppo d’informazione all’interno della Commissione Governativa. Invitai due o tre giornalisti, i quali dovevano raccogliere informazioni in merito agli aspetti della situazione medica, tecnica, radiologica dagli specialisti nelle quantità che ritenessero necessarie, parziali o complete che fossero, gestendo le imprecisioni qualora noi stessi non avessimo abbastanza informazioni. Successivamente le avrebbero inviate alla TASS, alla televisione di stato e ai quotidiani per informare le persone su ciò che stava succedendo, quale fosse la situazione. Tutto questo non fu respinto, ma per quanto ne so nessun gruppo di questa natura fu mai creato.

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La genesi delle cinque audiocassette non è del tutto chiara. Ciò che è chiaro, invece, è il motivo per cui Valerij Legasov le abbia registrate: raccontare, per intero, la cronaca fedele di quanto accaduto nonché il proprio punto di vista sulle scelte fatte per risolvere il problema e sui processi, politici e scientifici, che hanno portato all’incidente.

Il lettore dovrà tenere in considerazione alcuni aspetti fondamentali, come la modalità di racconto, il contesto storico e altro. In primis, è bene sapere che le audiocassette vennero registrate raccontando i fatti in prima persona, in momenti diversi, senza un lavoro di scrittura fatto a monte. Un racconto a braccio. Va da sé che non sia stato facile adattare la traduzione in modo da renderla fruibile in forma di prosa: spesso capita che alcuni concetti vengano ripetuti, oppure che la forma verbale tenda in alcuni passaggi a essere confusa o eccessivamente colloquiale. Un tentativo nel rendere il tutto abbastanza fruibile è stato fatto e ritengo che il risultato sia soddisfacente. Continua la lettura di I nastri di Legasov – Note per il lettore